Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  dicembre 08 Domenica calendario

Giorgia Meloni stia attenta a non fare la fine dei due Mattei

Chi sale precipitevolissimevolmente dovrebbe mettere in conto il rischio opposto, cioè il repentino ritorno alla casella di partenza. Capita in ogni arte e mestiere. Capita, e negli ultimi anni con esempi eclatanti, anche in politica. La conquista del consenso è operazione complessa e riesce a pochi. Ma altrettanto importante è la manutenzione di quel consenso: gli esempi italiani dimostrano che a questa fase due non si presta la necessaria attenzione, come se piantare la propria bandiera in vetta fosse garanzia di un imperituro diritto a restarci. Giorgia Meloni, per esempio, che sulla cima ci è arrivata a 45 anni, si ritrova esattamente alle prese con questo tipo di problema: come mantenere il consenso che l’ha portata, due anni fa, a diventare presidente del Consiglio, prima donna della Repubblica in quella carica. Se si guarda intorno, troverà due esempi che potrebbero aiutarla a riflettere: Matteo Renzi e Matteo Salvini. Entrambi, per un certo periodo, hanno avuto in mano l’Italia. Entrambi, in tempi e modi diversi, si sono giocati la grande occasione. Certamente il primo. Con ancora margini di recupero, il secondo. Anche se ritornare nel cuore di un Paese è quasi più difficile che entrarci la prima volta.
R enzi incarna il ciclone evocato in un film dal suo conterraneo Leonardo Pieraccioni. Dalla Toscana con furore. Il rottamatore di quello che è o suona come vecchio. «Time» lo indica come possibile nuovo Obama. 
Nei suoi tre anni d’oro, dal 2013 al 2016, diventa segretario del Pd a 38 anni, premier a 39 (il più giovane di sempre), alle Europee 2014 porta il suo partito oltre il 40 per cento (record di sempre). Ha già tutto, vuole di più. Invece di darsi da fare per consolidare l’enorme credito, lo investe nell’azzardo di un referendum costituzionale che imposta con un improvvido «o con me o contro»: si risolve in una sconfitta senza appello e senza rivincita. Oggi Renzi, a nemmeno 50 anni, è una variabile molto minoritaria del quadro politico. Può in parte consolarsi con il reddito, oltre 2 milioni di euro nel 2023, che lo pone tra i parlamentari più facoltosi, e con lunghe interviste piene di senso ma prive ormai della coda pregiata del consenso.
L’altro Matteo, il lombardo Salvini, compie un percorso quasi parallelo ma con un epilogo che resta a oggi apertissimo. A 40 anni prende il testimone da uno stremato Bossi e diventa segretario di una Lega precipitata al 4 per cento. Cinque anni dopo, alleggerito il partito dalla cianfrusaglia padano-celtica sostituita con ruspe anti-rom e vigorose campagne nazionali contro lo straniero, risale a un notevole 17 per cento che gli guadagna i gradi da ministro dell’Interno e vicepremier nel governo Conte 1, a maggioranza grillina ma a trazione leghista. Poi arriva il vero miracolo: Europee del maggio 2019, Lega primo partito con il 34 per cento. A quel punto Salvini, ubriaco di trionfo, invece di ritirarsi in un monastero a concentrarsi su come mettere a miglior profitto una tale fiducia popolare, si consegna all’estate del Papeete come Cesare al ritorno dalla Gallia, ha l’ardore e l’ardire di chiedere pieni poteri a una piazza di bagnanti. L’apogeo finisce per coincidere con l’inizio del declino. Salvini alzerà sempre più i toni, in direzione securitaria, nel tentativo di rallentare l’effetto rinculo, ma le ultime Politiche lo vedono in discesa al 9 per cento, perde due regioni (Sardegna e Umbria), è atteso da un imminente congresso della Lega lombarda, il 15 dicembre, dove per la prima volta dall’inizio della sua marcia a tratti trionfale, 2013, rischia di avere problemi di leadership all’interno del partito che lui stesso ha rifondato, plasmandolo a propria immagine. La discesa imboccata è ardita, la risalita non facilissima. 
A differenza dei due illustri Matteo, Giorgia Meloni è ancora nella fase uno, quella della gestione di un consenso abbastanza fresco e non deteriorato, anzi parrebbe il contrario, dal primo biennio a Palazzo Chigi. Anche lei, come il suo vicepremier Salvini, è partita presto e dal basso. Fonda Fratelli d’Italia a 35 anni (2012, con La Russa e Crosetto), alle Europee del 2014 parte col 3,7 per cento. Un partitino che però cresce e anche in fretta. Alle Europee successive ha già raddoppiato. Alle ultime Politiche, 2022, il boom che porta FdI al 26 per cento, primato in classifica e conseguente guida del nuovo governo. 
Per «la donna, madre, cristiana» che ha preso il banco e se lo tiene stretto, può essere il momento giusto per considerare da una posizione di vantaggio, cioè la vetta, il modo in cui interpretare gli anni restanti di questa legislatura. E più in generale ragionare su come evitare che il favore che l’ha catapultata alla testa di un grande Paese si disperda invece di cementarsi. Curarsi del consenso, coltivarlo invece che darlo per scontato, è un esercizio che altri hanno trascurato, pagandone, come visto, alto pegno. La pratica della manutenzione prevederebbe la disponibilità a rivedere almeno parte di quello che si è e che si è fatto, mettendo a fuoco sia la lista dei più sia quella dei meno. Nel caso Meloni, tra i più c’è di certo una stabilità di governo che è un valore anche per la nostra proiezione internazionale, stabilità aiutata da un’opposizione che fatica ad aggregarsi. Sempre tra le cose a favore, la capacità della leader di muoversi con svelta esperienza a risolvere i casi delicati prima che diventino problemi o temutissimi rimpasti, vedi la sostituzione volante di Raffaele Fitto, promosso ai vertici della Commissione europea, con Tommaso Foti al ministero omnibus (Affari Ue, Coesione, realizzazione del Pnrr). Tra i meno, la scelta di collaboratori tutti fedeli ma non tutti adeguati, e con qualcuno che troppo indulge a nostalgie per niente innocue. Ancora e soprattutto, la difficoltà di ammettere che viviamo un momento difficile, con le povertà gravi e croniche in aumento, e con Istat e Ocse che prevedono una crescita del Pil allo 0,5 invece del già magro 1 per cento che era stato messo a bilancio. 
Raccontare agli italiani che va tutto benissimo come mai è una tattica elettorale, non una strategia per il lungo periodo. La fase due di Giorgia Meloni, che si propone come cittadina lontana dalle odiate élite, capace di parlare e di agire e di sentire come la gente, potrebbe cominciare dal non avere paura del contatto diretto proprio con quella gente che guida e rappresenta, senza dividerla tra chi la sostiene e chi magari la fischia. Fare una conferenza stampa al mese, invece che una all’anno. Allenare la mediazione piuttosto che ribadire il diritto di comandare a prescindere. Inserire insomma un po’ di discontinuità, onde evitare l’errore di difendere il tesoro conquistato invece di investirlo. La sintonia con un Paese dipende da una manopola come quelle delle vecchie radio: per non perdere il segnale, bisogna avere la cura di metterci mano e con pazienza regolarla. Un leader che dura è un leader che non se lo dimentica, neanche quando è circondato dai turiboli degli incensatori.