Libero, 8 dicembre 2024
«Il pontefice considera l’Europa una causa persa»
Donald Trump ed Elon Musk c’erano. Assieme a Sergio Mattarella, Giorgia Meloni e altri quaranta capi di Stato e di governo. Alla cerimonia di riapertura di Notre-Dame si conta un solo grande assente, ma è l’invitato più importante: papa Francesco. Il «Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale», come lo definisce il diritto canonico, si è tenuto lontano non per ragioni di salute o altre costrizioni, l’ematoma che si è fatto sotto il mento sbattendo sul comodino non c’entra. Come ha spiegato il nunzio Celestino Migliore, è stata una scelta meditata: «Il Santo Padre ha una visione del mondo che privilegia le periferie, i Paesi poveri, i luoghi che non hanno ancora ricevuto una sua visita». Motivo per cui tra una settimana andrà in visita pastorale in Corsica. Ajaccio val bene una messa, Parigi non più.
A chi ieri era lì, il pontefice si è limitato a inviare un messaggio in cui invita a far entrare nella cattedrale, «generosamente e gratuitamente», persone «di ogni condizione, origine, religione, lingua e cultura». E questo nonostante il ruolo decisivo avuto dalla Francia nella universalizzazione della Chiesa: fu la conversione del re merovingio Clodoveo, nel 496, a spalancare al cattolicesimo e al papato le porte del continente.
Sembra la conferma di quello che già si era intuito: il pontefice considera l’Europa una causa persa, o qualcosa di molto simile. Il futuro della Chiesa lo immagina altrove: nelle «periferie» del mondo, appunto. L’elenco dei Paesi che ha visitato o ha in programma di visitare è lì a testimoniarlo: 52 in tutto, 37 dei quali fuori dall’Europa. Filippine, Uganda, Bolivia: è in posti come questi che, secondo Jorge Mario Bergoglio, dovrà affondare le radici la Chiesa di domani.
Se le cose stanno così, stiamo assistendo a una rivoluzione e a una scommessa epocali. Non solo Bergoglio sarebbe il primo papa a fare un simile cambiamento di paradigma, ma si porrebbe in netta discontinuità coi suoi predecessori. Nell’esortazione apostolica Ecclesia in Europa, Giovanni Paolo II ribadì che la Chiesa «ha il compito di ravvivare nei cristiani d’Europa la fede nella Trinità». E il grande tema di tutto il
pontificato di Benedetto XVI fu la “riconquista” del continente, tanto da lanciare a tutte le Chiese cristiane l’appello per una «nuova, intensa, attività di evangelizzazione, non solo tra i popoli che non hanno mai conosciuto il Vangelo, ma anche in quelli in cui il Cristianesimo si è diffuso e fa parte della loro storia».
Toni e priorità che non si ritrovano nelle parole del papa venuto «dalla fine del mondo». Alla domanda se possa esistere cristianesimo senza un’Europa cristiana, lontano da Notre-Dame e i suoi simboli, Bergoglio pare avere già dato risposta affermativa, e in questa prospettiva usa le energie che gli rimangono.
Ma lo scambio continuo con l’identità europea, che il cristianesimo ha plasmato e da essa è stato cambiato, è la grande forza che ha avuto la Chiesa nei secoli passati, e rinunciarci comporta un rischio tremendo per se stessa e per l’Europa. Anche nell’ipotesi migliore, quello che riuscirà a mettere radici nelle «periferie» sudamericane, asiatiche e africane sarà un cristianesimo molto diverso, con un’identità impossibile da immaginare per un cristiano europeo di oggi.