il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2024
Intervista a Willem Dafoe
Willem Dafoe, perché ancora Nosferatu – diretto da Robert Eggers e dal 1° gennaio in sala – a cent’anni di distanza dal capolavoro di Murnau?
Questo non è un remake, è un film originale, da Murnau prende solo l’ispirazione. Robert sostiene che i suoi film, anche se d’epoca, sembrino molto attuali, e il motivo è che non sono pieni di cliché hollywoodiani. È un ricercatore, Eggers, ama la storia, il folklore: qui i racconti popolari rumeni, la convinzione che i vampiri esistessero davvero.
Perché l’horror ci attira tanto?
Alla gente piace provare emozioni, e – non si direbbe – piace pensare. Quando le persone hanno paura, per prima cosa sperimentano questa emozione molto profondamente, poi pensano a come sfuggirvi.
Sbaglio, o la versione di Eggers, giacché Nosferatu è il parto dell’immaginazione della protagonista Ellen (Lily-Rose Depp), celebra il potere della masturbazione femminile?
(Ride) Ma no, sta facendo l’amore con il vampiro! Nosferatu esiste, è uno zombie, è reale. Non è masturbazione quella di Ellen. Questo è il vero affare – non che l’autoerotismo non lo sia, eh. Voglio dire, il vampiro è qualcuno morto da centinaia di anni, un nobile rumeno rianimato, deambulante.
Perché Ellen prova piacere?
C’è uno scopo e una passione: Nosferatu la vede, le dà ragione, la sente. E la vuole. Si è svegliato a causa sua, perché Ellen ha una relazione con l’invisibile: questo è ciò che li unisce.
Il suo professor Al bin Eberhart Von Franz fa professione di fede nell’occulto, lei?
Mi interessano tutte le cose che vedo e quelle al di là della nostra esperienza. Robert mi ha dato molte informazioni per incarnare il professore, e ciò che impari ti cambia: sfida la tua normalità, diventi qualcun altro.
Hollywood oggi è umanista?
Alcuni film lo sono, altri no. Non posso darle esempi. Perché sono piuttosto semplice, penso a cosa ho di fronte, cosa sto guardando e cosa sto facendo: gli elenchi di preferiti li lascio ad altri. A me non aiutano, forse sono un po’ hippie, ma sento davvero che il potere del cinema è legato all’aiutare le persone, ad aiutare il nostro tempo.
Nella Top 10 del box-office globale del 2024 ci sono dieci sequel: non teme la mancanza di immaginazione?
Dieci su dieci?!? In effetti, è stato sempre così, il cinema è un business. Ne sono consapevole, dunque non del tutto libero, ma non sono un uomo d’affari, e non lo faccio per soldi. Ci sono dentro per l’avventura, per l’arricchimento esistenziale.
Qual è stato il momento più difficile della sua lunga carriera?
Probabilmente, quando ho dovuto lasciare il Wooster Group, una compagnia teatrale con cui sono stato per 27 anni. Lavoravamo tutti i giorni, io facevo sempre più film, e questo ha avuto un impatto negativo sul gruppo: stavamo realizzando pièce originali, se non avessi ridotto il mio impegno, avrebbero dovuto stare ad aspettarmi.
Pietrangelo Buttafuoco l’ha nominata direttore artistico del settore Teatro della Biennale di Venezia: che dobbiamo aspettarci?
Non posso ancora annunciare il programma, lo faremo a marzo, ma la selezione è pressoché completa. È stato molto emozionante, ero determinato a non fare shopping: volevo presentare cose che riflettessero la mia esperienza e il mio interesse, persone con cui ho lavorato, che rispetto. E desidero anche connettermi con una Biennale molto speciale di 50 anni fa: nel 1975 fu un’edizione fantastica, zeppa di artisti influenti (Peter Brook, Jerzy Grotowski, Ariane Mnouchkine, Meredith Monk, Eugenio Barba, il Living Theatre, ndr), che avrebbero avuto un enorme impatto.
Oggi il teatro dov’è?
Non ho una risposta, posso dire che mi interessa molto il cuore del teatro, la presenza dell’attore e il corpo dell’attore. L’idea che il teatro è corpo, e il corpo è poesia. Non sono contrario alla tecnologia, la compagnia con cui lavoravo l’utilizzava ampiamente, ma temo che mentre rimaniamo abbagliati dalla tecnologia si perda il contatto umano – non tanto nella narrazione, quanto nella danza e nella performance art. C’è qualcosa di primitivo, importante ed essenziale in una persona che si alza di fronte a un gruppo per sperimentare qualcosa e far sì che quelle persone l’attraversino insieme. Alla Biennale Teatro tramite le opere e le discussioni voglio esaminare quanto abbiamo perso, quanto non ne abbiamo bisogno, quanto ne abbiamo bisogno.
In Italia ha trovato moglie, Giada Colagrande, e che altro?
L’Italia oggi è casa mia.
Meglio l’Italia di Giorgia Meloni o l’America di Donald Trump?
(Ride) No comment.