Corriere della Sera, 7 dicembre 2024
Biografia di Fabrizio Cicchitto
Fabrizio Cicchitto, quando ha iniziato a fare politica?
«Nel 1944».
Com’è possibile? Lei nel 1944 aveva quattro anni.
«Avevamo una casa vicino a piazza del Popolo, a Roma; ci abitava mio nonno materno, uno dei due fratelli che aveva aperto il mitico caffè Rosati dopo aver litigato con un terzo fratello, a cui era rimasto il caffè Rosati di via Veneto. Di questa casa, avevo quattro anni, ricordo il costante rumore di passi che arrivava dalle mansarde, che in realtà dovevano essere disabitate. Era come se qualcuno, da sopra il soffitto, facesse avanti e indietro, camminasse. “Ma chi c’è di sopra?”, chiedevo a mia mamma. “Nessuno, nessuno”, rispondeva lei. Fino a che un giorno, dietro una porta, vidi un uomo che stava rintanato là dentro. Trovandosi davanti questo bambino, l’uomo portò l’indice alla bocca, facendo il segno del silenzio. Gli risposi allo stesso modo, con l’indice alla bocca, il segno del silenzio».
Chi era?
«Un signore ebreo che mia mamma, mio nonno e gli altri condomini nascondevano in soffitta. Quando seppe che l’avevo visto, mia mamma mi indicò dal balcone un soldato tedesco di stanza al ministero della Marina Mercantile, che stava a qualche centinaio di metri da casa. “Il signore che sta di sopra sta scappando da questo criminale”».
Come andò a finire?
«Andò a finire che un giorno, rientrati da Villa Borghese dove mi portavano a giocare, attorno a casa trovammo un gran trambusto. Qualcuno aveva fatto una soffiata ai nazisti, che avevano trovato e portato via il signore della soffitta. Ricordo le lacrime di mia mamma e nitidamente la frase che ripeteva, urlando: “Mi vergogno di essere italiana”. Di quel signore ovviamente non sapemmo più nulla, anche se purtroppo è facile immaginare la fine che fece. Di me so che in fondo faccio politica da quel giorno. Ed è per quell’esperienza che sono sempre e comunque a favore di Israele».
Suo padre?
«Faceva il medico. Era stato catturato in Africa dagli inglesi assieme al fratello, anche lui medico; invece di mandarli in un campo di prigionia, molto intelligentemente li avevano spediti nell’Africa Orientale, a fare il loro lavoro nei villaggi».
Lei è diventato socialista perché i suoi erano socialisti?
«Macché. Mio papà era disinteressato alla politica; la famiglia di mia mamma era antifascista, monarchica, di tendenze democristiane. Io, invece, influenzato dai settimanali che leggevo, ero diventato totalmente anti-democristiano. Leggevo il Mondo, l’Espresso, il Borghese di Longanesi e il Candido di Guareschi: grazie ai primi due, criticavo la Dc da sinistra; con i secondi, la attaccavo da destra. Socialista lo sono diventato nel 1956, passando dal primo Partito Radicale di Carandini, dopo i fatti di Ungheria: alle manifestazioni contro l’Unione Sovietica, i fascisti ci accompagnavano fino quasi a sotto Botteghe Oscure ma poi, arrivati in prossimità della sede del Partito comunista italiano, scappavano via lasciando a noi ragazzini l’onere di prendere le botte».
Lei ha appena pubblicato con Baldini+Castoldi Controcorrente. Una storia liberalsocialista, una sorta di controstoria del Novecento concentrata sui partiti della sinistra. Ha già pronto un altro volume, tutto sui socialisti.
«La storia del mio partito, il Partito socialista, è lastricata di errori».
Il più importante?
«Forse quello compiuto da Nenni subito dopo il grande successo dei socialisti alle elezioni del 2 giugno del 1946, quando arrivarono davanti al Pci. Invece che continuare su quella scia, si scelse la strada del Fronte popolare coi comunisti, che alla lunga finì per essere la fortuna della Dc e del Pci».
Lei venne eletto deputato col Psi nel 1976, nella VII legislatura, la più tragica della storia repubblicana, quella del caso Moro.
«Un pomeriggio Craxi mi chiamò nella sua stanza, al partito. “Leggi qua”, mi disse passandomi un foglio. Era la lettera che gli aveva indirizzato Moro dalla prigionia».
«Caro Craxi, (...) sono qui a scongiurarti di continuare ed anzi accentuare la tua importante iniziativa»: la trattativa per salvarlo, in opposizione alla fermezza di Dc e Pci.
«Craxi era scosso, l’aveva appena letta. All’improvviso scoppiò in lacrime. Ricordo che mi disse: “Noi non siamo democristiani o comunisti. Noi dobbiamo salvare quell’uomo”».
Secondo lei, i margini per salvare Moro c’erano?
«C’erano, eccome. Tutta la colonna romana delle Br, da Morucci alla Faranda, quindi quelli che erano più vicini al mondo dell’Autonomia operaia, avevano compreso che per abbattere il sistema Dc-Pci c’era una sola strada: liberare Moro. In Mario Moretti c’erano invece altre valutazioni: per lui, nella formula partito armato, l’aggettivo contava più del sostantivo. E secondo me è abbastanza ovvio che qualche servizio segreto dell’Est, a un certo punto, intervenne per accelerare la sentenza di morte».
Cicchitto, come ci è finito nell’elenco della P2?
«Facendo la cazzata più grande della mia vita. Quando vennero fuori gli elenchi, Cossiga, che mi era amico, mi disse: “Se volevi fare affari, affiliarsi al gruppo di Gelli era la scelta giusta; se non volevi fare soldi, allora sei stato un coglione”».
Lei?
«Gli dissi la verità. Che ero stato un coglione».
Ma perché iscriversi?
«Iniziarono a girare voci su un mercato di informazioni e confidenze che riguardava il mondo socialista, con qualcuno dei nostri che era sospettato di trafficare con gente poco affidabile dei servizi. Proprio in quel periodo, iniziai a sentirmi spiato. Feci venire in ufficio un tecnico della Sip di cui avevo piena fiducia, un socialista della corrente lombardiana lontano dai maggiorenti del Psi, che erano tutti craxiani; e, analizzando gli apparecchi, scoprì che effettivamente c’erano una serie di derivazioni che portavano tutte a una stanza. Quindi è vero: insieme ad altri, ero spiato».
Chi la spiava?
«Non glielo dirò mai».
Perché chi la spiava è morto?
«Perché non glielo dirò e basta».
Ma perché affidarsi alla P2?
«Mi avevano detto che era una sorta di club di persone autorevoli, con legami coi grandi giornali. Sentendomi sotto attacco, reagii affiliandomi a quel club».
E quando scoppiò l’inchiesta?
«Un inferno a cui reagii autoisolandomi da tutto, per anni. Se sono ancora vivo oggi, è solo grazie alla mia viltà».
In che senso?
«Nel senso che spararmi un colpo in testa, per un certo periodo, m’era parsa l’unica soluzione. Non l’ho fatto per viltà. Quindi la viltà mi ha salvato la vita».
Come ha retto all’onda d’urto dell’autoisolamento?
«Anche grazie a Emanuela (Pavoni, ndr), che poi nel 1996 è diventata mia moglie».
Che lavoro fa sua moglie?
«La psicologa».
Come approdò in Forza Italia?
«Conobbi Berlusconi alle riunioni preparatorie dell’Udr, il partito di centro che Cossiga stava mettendo in piedi nel 1998. A un certo punto, Francesco mi disse che l’obiettivo era portare a Palazzo Chigi Massimo D’Alema; perché, cito lui, soltanto un ex comunista poteva portare il governo italiano a intervenire militarmente in Kosovo. A quel punto, i socialisti che partecipavano a quelle riunioni si avvicinarono a Berlusconi. Parlo di me, Gianni De Michelis, Margherita Boniver, Renato Brunetta, Maurizio Sacconi...».
Cicchitto: «Per la P2 solo la viltà mi ha salvato dal suicidio. Grazie a un amico della Sip scoprii che mi spiavano»
Fabrizio Cicchitto con Silvio Berlusconi nel 2000 (Lapresse)
Gli inizi col Cavaliere?
«Ci trovavamo alle 7 di mattina a Palazzo Grazioli a compilare il Mattinale, quella super rassegna stampa ragionata che nasceva da un’intuizione di Paolo Bonaiuti. In quelle riunioni nasceva la linea di Forza Italia: analizzavamo anche i discorsi di Berlusconi, evidenziavamo i punti che a nostro dire andavano rivisti...».
Berlusconi accettava le critiche?
«Capitava che gli dicessimo “qua hai scritto una cazzata!” e che lui condividesse e si comportasse di conseguenza».
Il pregio più grande del Cavaliere, secondo lei?
«L’aver salvato la democrazia nel 1994, scendendo in campo. Altrimenti saremmo finiti nelle mani delle procure e degli ex comunisti».
L’errore più grande?
«L’aver invitato Putin nel salotto buono della geopolitica mondiale. Berlusconi era convinto, così facendo, di attrarre la Russia nella sfera occidentale; Putin, in realtà, perseguiva già da allora il mito della Grande Russia plasmata su un modello autoritario in cui si fondevano, e si fondono, zarismo e Kgb».
Qualcuno lo metteva in guardia dal pericolo Putin?
«Io e Capezzone, stop. Ma su questo non ci filava nessuno».
Poi lei e Berlusconi rompeste nel 2013 sulla scelta di uscire dalla maggioranza del governo guidato da Enrico Letta dopo la decadenza del Cavaliere dal Senato.
«Gli dissi che, secondo me, se avesse abbandonato il governo di unità nazionale a seguito di una condanna penale, ecco, sarebbe passato per essere il nemico del popolo che non era. Lui preferì ascoltare i suggerimenti di Denis Verdini e della Santanchè, il gruppo dei falchi che gli consigliò la rottura totale».
L’ultima volta che vi siete visti?
«In quell’occasione. Quando gli feci presente che la sua linea di far uscire Forza Italia dalla maggioranza non la condividevo. Le strade si separavano».
Vi lasciaste male?
«Al contrario. Ci abbracciammo pure».
Per chi voterebbe oggi?
«Oggi avrei delle grandi difficoltà. Alle politiche del 2022 ho votato per il Terzo Polo, che però oggi non c’è più».
Meloni non le piace?
«È di gran lunga la migliore del suo schieramento. Che però ha al suo interno tendenze filo Putin e anche filo Trump, che non fanno per me. Comunque, l’ora della verità sarà il suo atteggiamento sull’Ucraina».
Schlein?
«Per carità, una radical-chic americana. La mia speranza è che venga fuori una nuova generazione che recuperi per davvero i valori storici del liberalsocialismo».
Oggi è più anti-comunista o anti-democristiano?
«Forse anti-comunista. I democristiani non ci sono più. Purtroppo».