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 2024  dicembre 07 Sabato calendario

Il debito (a volte) fa bene

Come spesso accade ci vuole una crisi per aprire gli occhi e convincersi che una riforma non è più rinviabile. Sta accadendo in Germania, dopo due anni di recessione e un lungo periodo di investimenti pubblici insufficienti. Molte infrastrutture pubbliche, ad esempio la rete telefonica in fibra, soffrono per scarsità di investimenti. Nella difesa Berlino fa fatica a versare alla Nato un contributo pari ad almeno il 2% del proprio Pil, l’impegno previsto dagli accordi dell’Alleanza Atlantica. Lo scorso anno raggiunse il 2% solo grazie ad un «trucco contabile» prontamente sanzionato dalla Corte costituzionale di Karlsruhe. Quel trucco quest’anno non potrà essere ripetuto ed è improbabile che Berlino raggiunga il 2%, così giustificando l’ira di Trump che non perde occasione per ripetere che sono gli americani a pagare per la sicurezza dei tedeschi (come di quasi tutti gli europei peraltro, con l’eccezione di Polonia e Paesi baltici).
La Germania non investe abbastanza non perché soffra di scarsità di risparmio. Al contrario: il risparmio delle famiglie tedesche sarebbe più che sufficiente, tanto che una parte considerevole, circa 300 miliardi l’anno, viene investita all’estero. Il blocco agli investimenti pubblici deriva da una norma costituzionale (chiamata «freno al debito») introdotta da Angela Merkel nel 2009, che non consente che il deficit di bilancio superi lo 0,35 del Pil.
Oggi la norma è messa in dubbio dallo stesso leader della Cdu, Friedrich Merz, che secondo i sondaggi vincerà le elezioni del 23 febbraio prossimo e sarà il nuovo cancelliere. Merz non è il solo ad avere dei dubbi. Anche Joachim Nagel, il presidente della Bundesbank, la banca centrale tedesca, ritiene che quella norma costituzionale vada allentata. «Avere regole di bilancio meno dure per affrontare problemi strutturali, come l’aumento delle spese per la difesa e l’ammodernamento delle infrastrutture, sarebbe un approccio intelligente», ha detto parlando al Financial Times.
A lungo si è argomentato che dal freno al debito dovessero essere esclusi gli investimenti pubblici (cominciò Mario Monti oltre trent’anni fa). I tedeschi si sono sempre opposti. Ricordo un seminario alla Bundesbank nei primi anni 2000 in cui spiegavo che il bilancio tedesco era simile a quello di un’impresa che non tenesse conto dell’ammortamento dei propri impianti: mi si rispose che gli italiani avrebbero trovato il modo di ammortizzare il capitale umano rappresentato dagli insegnanti, riuscendo così a sottrarre quella spesa al bilancio pubblico. La mancanza di fiducia superava le regole contabili.
Che cosa è cambiato? Innanzitutto un po’ di buona economia. Si è fatta strada l’idea che il primo fattore per la sostenibilità del debito pubblico sia la crescita, e che quindi la spesa pubblica che aiuta la crescita, ad esempio la spesa per istruzione e sanità, vada trattata diversamente da altre forme di spesa corrente. E con essa l’idea che la variabile cruciale non sia il livello del debito, in rapporto al Pil, ma il costo del debito, cioè il tasso di interesse, relativamente al tasso di crescita. La Gran Bretagna uscì dalla Seconda Guerra mondiale con un rapporto debito-Pil vicino al 200% (in Italia oggi siamo a 135) ma grazie a crescita sostenuta e tassi di interessi moderati, alla fine degli anni Sessanta quel rapporto era sceso al 45%.
E poi ci si è via via convinti che l’affermazione «il debito è un modo per trasferire sui nostri nipoti il costo dei servizi di cui gode la nostra generazione» è sbagliata, o almeno incompleta. Pensate alle guerre, momenti in cui il debito sale rapidamente. È vero che finita la guerra le generazioni successive dovranno ripagare il debito creato per finanziarla; ma, se la guerra è servita a mantenere il Paese indipendente, le generazioni successive vivranno in un Paese libero. Chi deve accollarsi i costi del debito emesso per finanziare la guerra? La generazione che si è indebitata e ha combattuto rischiando la vita, o i loro nipoti che devono ripagare il debito ma vivono in un Paese libero?
La Germania sta cambiando, ma non tutti in Germania: un mese fa i liberali hanno fatto cadere il governo Scholz proprio sul freno al debito. E nel nord dell’Europa, soprattutto nei Paesi baltici, è diffuso il timore che i Paesi del sud riescano a trasferire al nord un po’ dei loro debiti. Quindi bisogna procedere con grande cautela. Il fatto che Merz e Nagel si siano convinti è un cambiamento epocale, ma nell’Ue spesso serve l’unanimità: bisogna convincere gli estoni.
Ci sono altri due fattori che renderanno questo cambiamento di prospettiva irreversibile. Innanzitutto, come detto, la difesa. Costruire una difesa europea comune diventerà inevitabile («I Paesi che non pagano abbastanza per la Nato si scordino che gli Stati Uniti li difendano» dice Trump). Costruire nell’Ue un sistema serio di difesa ha costi altissimi, che solo gli stati possono pagare. Anzi, solo l’Ue emettendo debito comune perché nessuno Stato europeo, neppure la Germania, ha le risorse per farlo.
E poi la transizione verde che è la condizione perché trasmettiamo ai nostri nipoti un pianeta in cui sia possibile vivere. Il motivo per cui la transizione verde sarà tanto costosa è semplice. Pensate alla «motorvalley» italiana, nel triangolo fra Bologna, Padova e Torino. Gran parte delle imprese manifatturiere collocate in quell’area sono subfornitrici dell’industria automobilistica tedesca. Il passaggio all’elettrico (che andrà fatto con gradualità e saggezza, ma andrà fatto) comporterà una straordinaria riallocazione di capitale e di lavoro. Aziende che andranno chiuse e sostituite con aziende «verdi» e soprattutto lavoratori che dovranno essere riqualificati o, se troppo in là con gli anni, pensionati anticipatamente. Chi pagherà? Non certo i privati, almeno per la riqualificazione dei lavoratori, o almeno non per tutti. Anche qui pagheranno gli Stati o, ancora, l’Ue tramite l’emissione di debito comune. È già successo durante la pandemia del Covid quando fu istituito Sure, un fondo europeo che pagò la cassa integrazione generata dal Covid.