2 novembre 2024
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Biografia di Amartya Sen (Amartya Kumar Sen)
Amartya Sen (Amartya Kumar Sen), nato a Santiniketan (all’epoca nella provincia del Bengala, parte dell’India britannica) il 3 novembre 1933 (91 anni). Economista. Premio «Nobel» per l’economia (1998). Filosofo. Accademico. «Sostiene da sempre che all’economia le libertà di intrapresa non bastano. Servono valori oggi fuori moda: scuola pubblica, sanità, giustizia, stato sociale flessibile. Il benessere, insomma, non si misura solo dal Pil, ma dalla democrazia. Cioè dalla capacità degli individui di scegliere liberamente il loro destino» (Paolo Rumiz) • «Amartya, al netto di un carcinoma cutaneo spinocellulare che scopre da ragazzo e contro il quale combatterà per decenni, nasce fortunato (il nome significa “immortale”). Il nonno paterno è un’autorità indiscussa nello studio del sanscrito. Il padre professore di Chimica a Dacca, prima che la partizione la trasformi nella capitale del Bangladesh. Lo zio primo direttore generale della Fao» (Riccardo Staglianò). «Sen nasce nel 1933 a Santiniketan, a casa dei nonni materni. Passa i primi anni di vita a Dacca nel Bengala orientale, oggi Bangladesh, e poi a Mandalay in Birmania, dove il padre Ashutosh insegna Chimica all’università. Al ritorno della famiglia a Dacca, a sei anni viene iscritto alla St. Gregory’s School, un istituto prestigioso gestito da padri missionari secondo canoni tradizionali e fortemente competitivi che poco si adattano alle sue inclinazioni. […] L’invasione giapponese di Burma e il timore dei possibili bombardamenti aerei su Dacca o Calcutta convincono il padre che sarebbe stato più sicuro per lui continuare gli studi in una piccola località come Santiniketan. Così, nel 1941 Sen ritorna al paese natio e vi inizia a frequentare Visva-Bharati, la scuola sperimentale e progressista fondata nel 1901 dal poeta Rabindranath Tagore, il primo scrittore non europeo a ricevere il premio Nobel per la letteratura, nel 1913. È un ambiente completamente diverso dalla St. Gregory’s School, in cui è lasciata ampia facoltà agli studenti di scegliere cosa studiare, sono proibite le punizioni fisiche e le lezioni si tengono generalmente all’aperto, tra gli alberi, affinché nulla possa imprigionare il pensiero, neanche i muri della scuola» (Andrea Brandolini). «Il nonno materno Kshiti Mohan Sen emerge come la figura più influente sulla sua crescita intellettuale negli anni dell’adolescenza: grande studioso di sanscrito e uno dei più stretti collaboratori di Tagore, lo introduce a una lettura pluralista e non elitaria della letteratura e filosofia indiana, attenta alla tradizione popolare orale, fino a fargli scoprire il filone agnostico e ateo del corpo dottrinale dell’induismo. Sen parla di innumerevoli parenti, amici e conoscenti e racconta come vari zii e cugini fossero impegnati, in modi e partiti diversi, nell’opposizione alla dominazione inglese e per questa ragione fossero spesso imprigionati. […] Il dramma dei violenti scontri tra le diverse comunità, in particolare quelle induista e musulmana, che insanguinarono la colonia britannica negli anni Quaranta e poi portarono alla sua “partizione” tra India e Pakistan al momento dell’indipendenza gli si manifesta in tutta la sua tragicità quando nel 1944 un uomo sanguinante e urlante per il dolore entra nel giardino della sua casa e gli chiede aiuto. Quell’uomo aveva avuto il solo torto di andare a cercare lavoro, spinto dalla fame e dalla povertà della sua famiglia, in un quartiere hindu, dove era stato accoltellato a morte unicamente perché musulmano. Vi era, nota Sen, un forte connotato di classe in quegli eventi, poiché le vittime di quegli scontri provenivano in gran parte dalle classi popolari. Era d’altra parte il risultato di una divisione artatamente costruita su basi comunitarie e religiose, contraria a una secolare tradizione di convivenza» (Brandolini). «“Furono anni di grande dolore. La mia famiglia – induista sulla carta ma di fatto laica – era per un Bengala unito e per un’India unita. Fino alla fine degli anni ’30 si viveva in pace, poi l’identità religiosa divenne dominante rispetto a quella bengalese, incentrata sulla condivisione della stessa lingua e della stessa cultura. E improvvisamente il Paese (poi diviso in Bengala Occidentale, all’India, e Bengala Orientale, al Pakistan, ndr) piombò nel caos, con musulmani che uccidevano indù e indù che linciavano musulmani. La propaganda da entrambe le parti faceva coincidere l’identità con la religione”. Si è sentito in pericolo? “La nostra famiglia viveva in un quartiere borghese, al riparo dalle violenze che invece hanno colpito per lo più i poveri, sia musulmani sia indù. Vittime di fede diversa ma accomunate da una vita priva di protezioni. Ricordo però mia madre in pensiero per mio padre, che prima della partizione tornava regolarmente a Dacca per salvare vite umane: andava nelle zone degli scontri per soccorrere gli induisti nelle aree musulmane e i musulmani nei quartieri induisti”» (Alessandra Muglia). «A diciotto anni, Sen si iscrive al Presidency College di Calcutta, dove studia matematica ed economia, disciplina, quest’ultima, che finisce per scegliere al posto di fisica perché più vicina ai suoi interessi sociali e al suo impegno politico. “Calcutta è una città fantastica per le chiacchiere oziose, ciò che i bengalesi chiamano adda: una discussione libera, senza alcun ordine prestabilito, su qualsiasi tema che possa saltar fuori”. Nel clima multiculturale della città, ricca di teatri, caffè e librerie ben fornite, gli capita tra le mani un libro appena pubblicato che si rivelerà fondamentale per il suo futuro percorso intellettuale: Social Choice and Individual Values di Kenneth Arrow (Wiley, 1951). Il teorema di impossibilità di Arrow – secondo cui, in estrema sintesi, nessun sistema non dittatoriale di scelte sociali può generare decisioni coerenti o utilizzabili, una volta accettati pochi postulati apparentemente ragionevoli – gli appare come una sfida per l’India appena divenuta indipendente e alla ricerca della democrazia: “Potevamo avere un coerente processo democratico, o era quella una chimera?”. Nei decenni seguenti dedicherà molta della sua ricerca a sviscerare questo tema, chiarendo, come recita la motivazione del premio Nobel, “le condizioni che consentono l’aggregazione dei valori individuali in decisioni collettive e le condizioni che consentono che le regole per la formulazione di decisioni collettive siano coerenti con una sfera di diritti per l’individuo”» (Brandolini). «Dopo la laurea a Calcutta, prosegue gli studi al Trinity College a Cambridge, dove rimane dal 1953 al 1963. È spinto a questa scelta dal padre, che aveva egli stesso conseguito il dottorato in Inghilterra, e decide di far domanda solamente per il Trinity College perché lì erano Maurice Dobb (“l’economista marxista più creativo del XX secolo”), Piero Sraffa (“un grande pensatore sia in economia sia in filosofia, che era stato amico intimo e collaboratore del grande intellettuale marxista Antonio Gramsci”) e Dennis Robertson (“il principale economista utilitarista e un brillante pensatore conservatore”). […] A Cambridge rivive il gusto per il dibattito intellettuale degli adda iscrivendosi ai tre club socialista, liberale e conservatore (non a quello laburista perché incompatibile per statuto con l’appartenenza al club socialista). […] Quelle frequentazioni e ovviamente gli studi universitari gli permettono di incontrare molti studiosi e intellettuali di primo piano. […] In una Cambridge ai vertici dell’eccellenza accademica mondiale, maturerà una profondità di pensiero che lo pone tra i più grandi e influenti intellettuali contemporanei, non solo nelle discipline economiche» (Brandolini). Giunto all’insegnamento universitario ad appena ventidue anni, Sen è tuttora «professore di Economia e Filosofia all’Università di Harvard, ultimo approdo di una straordinaria carriera culminata con il premio Nobel per l’economia nel 1998, che l’ha visto insegnare all’Università Jadavpur di Calcutta, alla Delhi School of Economics, alla London School of Economics e all’Università di Oxford e ricoprire il ruolo di master del Trinity College a Cambridge» (Brandolini) • Autore di numerosi saggi, tra cui Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia (Mondadori, 2000), Globalizzazione e libertà (Mondadori, 2002), Etica ed economia (Laterza, 2003), L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana (Mondadori, 2005), Scelta, benessere, equità (il Mulino, 2006), Identità e violenza (Laterza, 2006) e La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il Pil non basta più per valutare benessere e progresso sociale (con Joseph Stiglitz e Jean-Paul Fitoussi) (Rizzoli, 2013) • «Nel 1943 lei ha visto di persona la carestia del Bengala. In che modo questa esperienza ha influenzato il suo lavoro sulla povertà e le carestie? “Nella primavera del 1943 non avevo ancora dieci anni, e i miei pensieri erano ancora piuttosto primitivi. Ma l’aspetto della carestia del Bengala che mi colpì di più da bambino è proprio quello che poi influenzò la mia ricerca di trent’anni dopo. La cosa aveva a che fare con la natura classista della mortalità: oltre alla rabbia e allo scandalo dovuti al fatto che milioni di persone morissero di fame e di malattie a essa collegate, rimasi sorpreso dal fatto straordinario che nessuno di coloro che conoscevo personalmente, parenti o amici, aveva seri problemi economici durante la carestia, mentre milioni di persone sconosciute vagavano per il Paese in cerca di cibo e morivano”. […] E a quali conclusioni arrivò, nei suoi studi? “Quando in seguito studiai sistematicamente quella carestia, così come molte altre in Africa e in Asia, […] mi concentrai sui motivi per i quali un gruppo di persone potesse di colpo perdere la possibilità di comprare cibo: ad esempio, la disoccupazione, o la perdita di potere d’acquisto dei salari. Benché la disponibilità di cibo sia certamente uno dei fattori che influenzano le carestie, dobbiamo esaminarne anche molti altri. In realtà molte carestie, compresa quella del Bengala del 1943, sono accadute senza una sostanziale diminuzione della disponibilità del cibo, e a volte addirittura anche senza alcuna diminuzione!”» (Piergiorgio Odifreddi). «Lei non sembra molto attratto dalla ridistribuzione, eppure nei Paesi ricchi c’è un grande spreco di cibo. “Nel mondo non vedo molte possibilità di ridistribuzione. C’è però spazio per la crescita economica”. […] Qual è la sua posizione sugli Ogm, gli organismi geneticamente modificati? “È una discussione esagerata. Gli Ogm possono porre alcuni problemi, ma si tratta di eccezioni. Persino la Rivoluzione verde indiana fu biotecnologica. Per esempio nel riso. Il riso racconta storie di enorme interesse, anche dal punto di vista di classe”. In che senso? “Dal ’500 in poi, fino a tutta la dominazione britannica, il lavoro di selezione sul riso in India fu dettato dalle classi dirigenti, con poca attenzione alla popolazione. Quindi si puntò più alla qualità che alla quantità. In Cina avvenne il contrario: si pensò più alla quantità. Il risultato è che oggi il riso di qualità Indica è più raffinato: i chicchi si staccano, non puoi mangiarlo con le mani. Quello di qualità Sinica è più compatto, colloso. Per dire che al fondo dell’alimentazione ci sono l’economia e la politica. […] A creare problemi non sono le tecnologie, ma la cattiva gestione del territorio. Possiamo benissimo combinare le nuove tecnologie con il rispetto della biodiversità. Se non vogliamo chiamarli Ogm, chiamiamoli nuove varietà”» (Danilo Taino) • «Una delle sue idee più influenti è […] che gli indicatori puramente economici, quali il prodotto interno lordo o il reddito pro capite, non sono una misura sufficiente dello sviluppo di un Paese. Di cos’altro bisogna tener conto? “Del fatto che la caratteristica principale dello sviluppo sta nell’ampliare la libertà umana. Lo sviluppo non può essere visto soltanto in termini di crescita di concetti astratti, come quelli che lei ha citato. Naturalmente essi sono utili, ma il loro valore deve dipendere dal loro effetto concreto sulla vita e sulla libertà delle persone. […] È importante intendersi sui fini dello sviluppo: le libertà politiche devono essere incluse fra le sue condizioni essenziali, perché senza di esse la libertà umana rimarrebbe inadeguata”» (Odifreddi). «Lei è stato anche l’ispiratore di una serie di misure alternative al Pil, per esempio l’“indice dello sviluppo umano” (Human Development Index) usato dalle Nazioni unite. Eppure il Pil continua ad avere un ruolo dominante. […] “Quello che conta davvero è il benessere delle persone. L’indice dello sviluppo umano, pur imperfetto, include l’istruzione, che invece non entra nel Pil. […] Perché l’indice dello sviluppo umano riceve meno attenzione? Perché la sua importanza è fondamentale per i ceti più poveri. I ricchi, i ceti più benestanti, s’interessano del Pil perché la crescita economica misurata con quell’indicatore concentra su di loro i massimi benefici”» (Federico Rampini) • Quattro figli: due femmine dalla prima moglie, la scrittrice e studiosa indiana Nabaneeta Dev Sen (1938-2019); una femmina e un maschio dalla seconda moglie, l’economista italiana Eva Colorni (1941-1985), figlia di Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann. Dal 1991 è sposato in terze nozze con la storica dell’economia inglese Emma Rothschild (1948), membro della celebre famiglia di banchieri • «A un giornalista della Bbc che voleva incassare almeno la certezza su quale luogo l’indiano che aveva studiato a Cambridge e insegnato a Harvard considerasse più suo, Amartya Sen rispose che aveva “più di una casa in cui mi sento a casa” e che non condivideva affatto l’idea dell’intervistatore che quel tipo di radicamento dovesse essere esclusivo. Proprio come quando gli chiedevano “Ma qual è veramente il suo cibo preferito?” e lui rispondeva “Li adoro tutti, ma non vorrei vivere mangiando sempre uno solo di essi”. C’è, in questa avvertenza apparentemente prosaica, il filo che tiene insieme la vita del grande economista e le pagine della sua ponderosa monografia (La mia casa è il mondo, Mondadori), in cui ripercorre una formidabile avventura intellettuale partita […] da un villaggio a centocinquanta chilometri da Calcutta. Perché, dal momento in cui dici “questa è casa mia”, è un attimo che costruisci un muro perché nessuno si avvicini e due prima di imbracciare un fucile e usarlo contro chi prova a entrare in giardino» (Staglianò). «Il titolo del libro […] cattura l’essenza di Amartya Sen: un uomo che non ha mai rinunciato ad avere solamente la cittadinanza indiana, nonostante le difficoltà pratiche che questo ha spesso comportato, e che pure si è sempre trovato a proprio agio nei Paesi in cui è vissuto» (Brandolini) • «Ci vengono imposte semplificazioni alla definizione di noi stessi, laddove l’individuo è complesso. Nell’individuo si assomma la partecipazione a un’infinità di gruppi. […] Siamo solo noi che possiamo decidere quali di queste identità sono più importanti. Dobbiamo impedire che lo facciano altri, spingendoci allo scontro. […] Non credo in spiegazioni a una dimensione. […] Ho fiducia nella società aperta. È una cosa che ho respirato fin da bambino. L’influenza del poeta Tagore, Nobel pure lui, è stata importantissima. […] Da Tagore ho imparato che l’opposizione alla politica britannica non doveva implicare il rifiuto della cultura britannica: Newton, Shakespeare, Milton. Poi ho avuto una formazione che guardava a tutte le civiltà, non si fossilizzava nella contrapposizione con l’Occidente. Infine ho imparato che i valori indiani dovevano comunque essere vagliati criticamente. Tagore diceva: il ruscello della ragione non deve mai essiccarsi nella sabbia del deserto…» • Ateo • «Da studente a Cambridge frequentava tutti i circoli, compresi i più conservatori. La sua guida principale per gli studi lì era l’amico di Antonio Gramsci, Piero Sraffa – che gli fece conoscere tra l’altro il piacere del caffè ristretto –, ma incontrava ogni settimana anche Peter Bauer, futuro deputato thatcheriano. E, per quanto non smetta mai di citare Adam Smith, padre del liberalismo economico, non si può classificare Sen come un pensatore di destra. L’ideologo delle identità plurali e del multiculturalismo ha messo in guardia sulle monoculture, dove la ricerca dell’identità spesso si riduce al culto delle origini» (Muglia) • «Sen è molto meno severo con Xi Jinping che con Modi. “I cinesi maltrattano le persone, in termini di democrazia e diritti umani, è vero, purtroppo. Ma hanno anche aumentato il livello di istruzione e sviluppato servizi sanitari per tutti, più che in qualsiasi altro Paese dell’Asia o del Medio Oriente. […] Non sono quindi sorpreso che la Cina stia facendo meglio dell’India, la cui democrazia è fortemente deteriorata. L’India, dopo essersi spesa per raggiungere uno status democratico – è stata il primo Paese non occidentale a puntare sulla democrazia –, ora sta facendo di tutto per perderlo”, constata con amarezza Sen» (Muglia) • «“Idealista concreto”. […] È l’uomo che ha coniugato il concetto di crescita a quello di equità. Il primo ad aver messo l’accento sulla parola democrazia quando spiegava una dottrina economica. Uno dei pochi nel suo campo che riesce ad appassionare e spesso a divertire, come dimostrano nei video delle sue conferenze milioni di persone, che seguono passo passo i suoi interventi e riempiono le aule delle università e i teatri come per una rockstar» (Francesca Caferri). «Uno dei più originali e influenti pensatori contemporanei» (Odifreddi). «Probabilmente il più grande economista vivente. In realtà la definizione di economista sta stretta ad Amartya Sen. Questo premio Nobel è forse l’unico che all’Università di Harvard ha avuto cattedre sia di Economia che di Filosofia» (Rampini) • «Ho sempre avuto più interessi, ed è bello lasciare scorrazzare la mente, senza confinarla nella propria specialità».