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 2024  novembre 30 Sabato calendario

Biografia di Tahar Ben Jelloun

Tahar Ben Jelloun, nato a Fès (Marocco) il 1° dicembre 1944 (80 anni). Scrittore.
Titoli di testa «Siamo sempre lo straniero di qualcun altro »
Vita Nato a Fès in una benestante famiglia berbera, quando il Marocco da protettorato francese stava trasformandosi lentamente in uno stato marocchino indipendente • Sua madre «una piccola donna, bella ed elegante e che gli anni hanno appesantito e logorato, ha sofferto. Sposata a 15 anni, rimane vedova l’anno successivo, con una bambina che suo padre, morto a 21, ha mai visto. Si risposa molto presto, rimane di nuovo vedova, con un figlio. La sfortuna la perseguita, pensa che non si sposerà più. Tuttavia sposa un altro uomo «a condizione che lui divorzi dalla prima moglie non appena rimane incinta!». E lei rimane incinta. E lui divorzia come promesso. Dà alla luce un maschio» • «Inizia la Seconda guerra mondiale è iniziata e il Marocco ne soffre. “Olio, zucchero, farina erano razionati; le spezie venivano vendute male; la vita quotidiana era difficile, ma mio padre era il più felice degli uomini”, scrive Tahar Ben Jelloun. La sua giovane moglie aspettava un secondo figlio, ‘non ci sarà più la guerra, ne sono certo!’. Sono venuto al mondo pochi mesi prima della fine della guerra”. A Fez, il 1° dicembre 1944» [Josyane Savigneau, Le Monde] • «Sono cresciuto in una famiglia povera. Non avevamo neanche l’acqua corrente. Ma non eravamo gelosi di niente e di nessuno. I miei genitori mi hanno educato ad accettarmi per quello che ero, insegnandomi che, per progredire, dovevo lavorare, fare degli sforzi» • «Ho frequentato prima la scuola coranica locale, poi, all’età di 6 anni, sono entrato nella scuola elementare bilingue franco-marocchina. Al mattino l’insegnamento era in francese, al pomeriggio in arabo. La scuola era gestita da un francese» [Tahar Ben Jeloun, Tbj] • Nel 1956 la famiglia si trasferisce a Tangeri, «e per colei che lui chiamava “Yemma” e che lo chiamava sempre “figlio mio”, fu l’esilio. Avrà la nostalgia costante di Fez, del “sapore delle piccole ciliegie nerissime”, del “profumo dei fiori d’arancio”, del “colore di un tempo passato”» [Savigneau, cit.] • Tahar frequenta prima il lycée Ibn Al Khatib poi il lycée français Regnault. Prende la maturità nel 1963 [academiegoncourt] • «Mio padre mi diceva sempre: più lingue impari, meglio è, perché una lingua è un mondo, una cultura, una civiltà diversa dalla nostra. Mi sono limitato al francese, allo spagnolo e, più tardi, all’italiano. Grazie a mio padre ho deciso di arricchirmi con la lingua degli altri e mi sono concentrato sulla lingua francese. Già al liceo scrivevo temi molto dettagliati che a volte venivano letti in classe, cosa che mi dava fastidio» [ad Alexandra Lemasson, l’éléphant] • Studiato Filosofia all’Università di Rabat • Nel 1965, studente, partecipa diverse manifestazioni. Nel luglio del 1966 «I miei studi di filosofia vengono interrotti; Sono stato inviato in un campo disciplinare dell’esercito (a El Hajeb poi ad Ahermemou, nel Marocco orientale) con altri 94 studenti sospettati di aver organizzato le manifestazioni del marzo 1965. Fui rilasciato nel gennaio 1968 e ripresi gli studi» (Tbj) • «Da lì si apre un abisso fatto di violenza, privazione del sonno e del cibo, di tortura e angoscia di non sapere se e quando la porta della prigione si aprirà per lui: alcuni dei suoi compagni di prigionia si ammalano, altri muoiono, lui passa il tempo a chiedersi se non fosse stato meglio rimanere in silenzio, invece che rovinarsi l’esistenza». È una storia che sembra essere ambientata oggi in Siria o in Egitto quella che Tahar Ben Jelloun racconta in La punizione, il suo nuovo romanzo (La nave di Teseo, pagg. 138, euro 17) [Caferri, Rep] • «È stato un periodo che mi ha formato, perché sono uscito da lì con poche illusioni sull’umanità e poche illusioni sull’uomo in generale. Mi ha guarito da molte delle mie illusioni» [a Anne Roumanoff, Europe1] • Nello stesso anni insegna Filosofia al liceo Charif Idrissi di Tétouan. «Pubblico anche sulla rivista Souffles la mia prima poesia L’Aube des Dalles, scritta di nascosto nel campo disciplinare» • «Nell’ottobre 1970, fui trasferito al liceo Mohamed V di Casablanca. In quell’anno ho insegnato poco a causa degli scioperi degli studenti delle scuole superiori. Nel 1971 edizioni Atalantes hanno pubblicato la mia prima raccolta di poesie Uomini sotto il sudario del silenzio con la prefazione di Abraham Serfaty» (Tbj) • «Nello stesso anno, una legge impone che l’istruzione deve essere impartita in arabo. Tahar Ben Jelloun, non avendo l’abilitazione per insegnare in arabo, parte per la Francia e si stabilisce a Parigi» [Lintern@ute.fr]. Arriva a Parigi l’11 settembre. Si iscrive subito al corso di Psichiatria sociale e scrive, scrive sempre più. Pubblica articoli i suoi primi articoli per Le Monde • Nel 1975 consegue il dottorato in psicopatologia sociale • «François Maspero pubblica le mie poesie e Maurice Nadeau, il mio primo romanzo Harrouda (Giunti)», un romanzo zeppo di sensualità che sconvolge il Marocco • «In tempi di scontri di civiltà evocati o negati, di meticciati aborriti o rivendicati, il marocchino di espressione francese Tahar Ben Jelloun è uno degli scrittori più amati della sinistra. Cittadino di Parigi ma anche di Tangeri, autore di romanzi talvolta riecheggianti la tradizione delle Mille e una notte ma anche di saggi di impegno civile come Il razzismo spiegato a mia figlia (Bompiani, 1998), Ben Jelloun possiede i requisiti del perfetto “ponte tra due culture” e anche come tale gode – soprattutto in Occidente, meno tra i suoi conterranei – di un consenso quasi unanime. Spezzato [...] da Nuovi Argomenti, la rivista fondata nel 1953 da Moravia e Carocci, diretta tra gli altri da Pasolini, Sciascia e Siciliano. [...] Nuovi Argomenti critica Tahar Ben Jelloun e lo fa tacciandolo del più grave dei peccati per un intellettuale arabo: “Orientalismo”. Orientalismo è il titolo del libro scritto nel 1978 dal palestinese-americano Edward Said, altro grande autore a cavallo tra due mondi caro alla sinistra, che accusò gli intellettuali occidentali di ingabbiare le multiformi culture orientali in formule stereotipate e romantiche, dove – per esempio – il mondo islamico evoca immediatamente mistero, violente passioni, dispotismo in politica. La stessa accusa viene mossa a Ben Jelloun su Nuovi Argomenti dalla studiosa di letteratura araba Silvia Lutzoni, che – riprendendo critiche già espresse da autori maghrebini come Ridha Bourkis – esamina alcuni passaggi dello scrittore di Creatura di sabbia. Da Il labirinto dei sentimenti: Isabel era una donna berbera “di una bellezza luminosa e inquietante, una bellezza che fa male e scatena la violenza [...] La bellezza di quella donna era la sua grazia e la sua sventura, la sua fatica di vivere perché nessun uomo poteva resisterle né accettarla serenamente”. Commenta la Lutzoni: “La donna berbera, bellissima e enigmatica, assume su di sé tutti i tratti di un luogo comune che la letteratura occidentale dell’Ottocento (da Flaubert a Chateaubriand, ndr) si era già peritata di tramandare, avallando un’idea dell’Oriente di lussi, misteri e carnalità così radicata e, insieme, perniciosa, tanti sono stati gli equivoci che ha proiettato sui già difficili rapporti tra due culture”» • Creatura di sabbia (Bompiani, 1985) e il seguito Notte fatale (Bompiani, 1987) vengono tradotti in 43 lingue in tutto il mondo. Un successo che gli vale il Prix Goncourt. Del 1995 il saggio educativo Il razzismo spiegato a mia figlia ha un grande successo. Vende 400.000 copie e viene tradotto in 33 lingue, facendo di Tahar Ben Jelloun l’autore francofono più tradotto al mondo • «È sempre più difficile. Parigi è una città molto inquinata, troppo viziata dai turisti. bellissima, ma la vita quotidiana è difficile: un traffico intenso ogni ora del giorno, la polizia che vigila sempre, la gente è stressata e nervosa, non c’è gioia di vivere a Parigi!» [ad Alain Elkann, Sta 26/10/2003] • Nel 2006 per Gallimard pubblica Partir • Scrive in francese «Adesso avrei difficoltà a scrivere in arabo. Scrivere un intero libro in arabo per me è impossibile. In effetti il francese è una lingua magnifica, molto ricca, ma anche molto difficile. In Francia la lingua di Racine, di Rabelais è un esempio supremo di bella lingua, in Inghilterra troviamo Shakespeare, o Dante in Italia... ma in arabo non abbiamo uno scrittore rappresentativo. Il più grande poeta arabo di oggi non padroneggia la lingua al 100%. Ad esempio il grande Mahmoud Darwisc, palestinese, eccelle, ma solo il Corano è il vero rappresentante della lingua araba. È scritto molto bene, è molto forte, come certi testi della Bibbia» [a insulaeuropea.eu] • «In Africa essere uno scrittore pubblicato in Occidente con successo vuol dire molte cose. Significa essere quasi un mito. Ma quando si vive in Europa, diventa una professione banale, non stupisce nessuno. Io sono originario del Marocco, vengo investito di varie missioni per il mio Paese. Dal momento che racconto storie, pensano che debba trovare soluzioni anche per i problemi economici del paese e che debba parlare a nome di tutto il popolo. […] Vivo a Parigi perché scrivo in francese e mi sembra più naturale abitare nella città centro della cultura francofona. […] Al mattino scrivo dalle otto all’una su un quaderno con una penna stilografica. È più facile trasportare i quaderni, quando mi sposto, occupano poco spazio. Non ho alcuna fiducia nei computer, cerco di evitare di adoperarli perché ho perso dei testi» [ad Alain Elkann, Sta 9/7/2000] • La mamma si ammala di Alzheimer. Confonde la realtà con i ricordi: «La vecchiaia e poi la senilità hanno rimandato mia madre ai giorni fioriti della sua giovinezza». A lei dedicherà Mia madre, la mia bambina (2007). «Furono tre anni di sofferenze. Il giorno in cui morì, pensai che avrei passato una notte orribile. E invece no, fu il contrario. Ero sollevato, perché si era liberata del suo dolore. Il mio inconscio mi aiutò ad avere un sonno profondo. Quando si esce da una prova difficile, si dorme bene». L’accompagnò in qualche modo verso la morte? «No, lei era molto credente. Non voleva assolutamente accelerare la fine. Era Dio a dover decidere. Non aveva paura della morte, ma sì (e io l’ho ereditato da lei) della malattia» [Martinelli, cit.] • Nel 2001 L’Islam spiegato ai nostri figli (Bompiani): «L’11 settembre 2001 il mondo occidentale viene colpito: due aerei si schiantano sulle Torri gemelle a Manhattan, l’America è sconvolta, la paura di altri attacchi terroristici si diffonde, ogni arabo diventa sospetto. È a partire da questo scenario che si sviluppa questa conversazione tra Tahar Ben Jelloun e sua figlia – che all’epoca aveva dieci anni - a disagio con sé stessa, con le proprie origini musulmane, di fronte a una televisione che continua a dire “che i musulmani sono tutti cattivi”. Ben Jelloun spiega, con semplicità ma rifuggendo ogni semplificazione, cos’è l’Islam, qual è la differenza tra arabo e musulmano, cos’è il fanatismo, cos’è il terrorismo, quale spazio ha la tolleranza nel mondo arabo, quali lezioni ha dato all’Occidente» [Bompiani]. Seguirà, nel 2016, Il terrorismo spiegato ai nostri figli (Ndt) • Dal 2008 fa parte dell’Académie Goncourt. Dal 2011 è membro della giuria del premio letterario Guillaume-Apollinaire • «Ci sono scrittori che hanno fatto la differenza, come Zola, Sartre... Camus è sempre stato estremamente preoccupato per il suo paese, per la storia. Ha scritto testi magnifici. Gide era più preoccupato dalla sua persona, dalla sua filosofia. Per me uno scrittore è un cittadino. Può avere idee politiche, può appartenere a un partito politico. Ma non è il mio caso. Io sono molto preoccupato per la condizione umana in generale, i diritti umani, i diritti delle donne, l’immigrazione, perché mi interessa. Mi preoccupo per la condizione della gente» «Nel 2010, abbandono scarabocchi e disegni per dipingere su tela. La mia prima mostra di pittura è del 18 aprile 2013 al Museo San Salvatore in Lauro a Roma» [Tbj] • Le sue opere verranno esposte anche in Marocco nel 2014: «Ho sempre disegnato. Da bambino scarabocchiavo sui fogli di carta di mio padre, un droghiere. Sono diventato professionista quindici anni fa grazie ad un amico italiano. Oggi sono molto felice di alternare scrittura e pittura. Attualmente sto esponendo tre grandi dipinti in una cattedrale a Roma, ho una mostra in preparazione ad Abidjan, un’altra a Tangeri. I miei romanzi seguono il dolore, i miei dipinti illuminano» [Lemasson, cit.]. Quando dipinge ascolta musica jazz «quando scrivo ho bisogno del silenzio» • Viene censurato in Marocco? «No. Ho offerto Insonnia al re e mi ha detto che era molto contento. Gli mando sempre i miei romanzi. E lui legge, perché è un lettore appassionato, mica come era suo padre» [Martinelli, cit.] • «Nei miei scritti affronto temi drammatici, come l’esilio, la solitudine, l’immigrazione, la condizione della donna. Attraverso la pittura celebro la gioia e cerco la luce» • Nel 2015 è tra i fondatori di La Nave di Teseo. Era molto amico di Umberto Eco: Come l’aveva incontrato? «Grazie a Bompiani, che era il nostro editore, e a Mario Andreose ed Elisabetta Sgarbi, coinvolti in quella casa editrice e poi nell’avventura della Nave di Teseo. Ci siamo frequentati per una trentina d’anni». Il suo ultimo ricordo? «Ancora una cena, a Milano, a casa di Elisabetta. Era il 23 novembre 2015, quando si lanciò La nave di Teseo, alla quale mi ero subito associato. Quella sera, a chi esprimeva dubbi sulla scelta del nome della nuova casa editrice, lui rispose con una sorta di lezione di mitologia, appassionante come sempre. Raccontò la storia di Teseo, giovane re unificatore e sposo sfortunato di Fedra». Stava già male? «Io non mi accorsi di nulla. Approfittando del fatto che non ci fosse sua moglie, beveva un whisky dietro l’altro e non dava la sensazione di essere malato. Fu brillante come sempre. C’eravamo dati appuntamento a Parigi dopo le vacanze di Natale e invece morì di lì a tre mesi». Se la ricorda la sua voce? «Certo, lavorata dal tabacco e dall’alcol. Veniva da lontano e al tempo stesso era familiare». Le piaceva l’Eco scrittore? «Di lui ho letto vari saggi. Ma devo essere sincero, ho letto un solo romanzo, Il nome della rosa. Quel libro dimostra come le religioni non sopportino il ridere, l’ironia. Il pendolo di Foucault l’ho iniziato più volte ma non sono mai riuscito a finirlo. Non riuscivo a capire tutto. Devo ammetterlo, non ho tutti gli strumenti culturali necessari per leggerlo» […]. Affrontavate solo temi culturali? «No, spesso argomenti leggeri. Uno, per esempio, era il vino. Per lui quello vero era solo bianco e io rispondevo che non c’era storia, il vino per eccellenza è rosso. E lì partivamo in lunghe diatribe». [Leonardo Martinelli, Sta]. «Avrebbero dovuto dargli il Nobel e invece l’hanno assegnato a Dario Fo, robe da matti» [Martinelli, Tutolibri] • Il suo romanzo L’Ablazione (Ndt, 2015) riflette sulla vita e sulla malattia. Ben Jelloun lo ha scritto per un suo amico che si era sottoposto all’asportazione della prostata. Nel 2019, Tahar Ben Jelloun pubblica Insomnia (Ndt), la storia di uno sceneggiatore insonne che deve togliere vite umane per trovare le braccia di Morfeo [Lintern@ute.fr]. Cos’è «Insonnia»? Un thriller tragicomico? «Mi piace questa definizione. È la prima volta che scrivo un polar, una sorta di giallo. E, a dire il vero, non era la mia intenzione. È arrivato da solo: non è male scrivere un libro per caso basta cominciare» [Martinelli, Tuttolibri] • La sua vera battaglia è contro il razzismo? «Sì, non siamo fatti per combattere ma per vivere insieme. Da bambino a Tangeri vivevamo accanto a una famiglia ebrea marocchina. Ogni venerdì mia madre offriva loro un piatto di couscous e il giorno dopo gli ebrei mandavano un piatto di skhina, una ricetta tipica ebraica. Ho nostalgia del tempo in cui ebrei e musulmani vivevano insieme in solidarietà e pace» •Sensibile alla causa palestinese (e non solo) ha scritto anche Jenin. Un campo palestinese (2002), La rivoluzione dei gelsomini. Il risveglio della dignità araba (2011), Non capisco il mondo arabo (2006), È questo l’Islam che fa paura (2015), L’urlo. Israele e Palestina. La necessità del dialogo nel tempo della guerra. Anche il suo ultimo romanzo riguarda Gaza: In Gli amanti di Casablanca (La nave di Teseo), «il protagonista è un pediatra sensibile alla causa palestinese e che ogni anno va a curare i bambini di Gaza, e io mi ci rispecchio molto. Se non fosse stata nel mio cuore Gaza non gli avrei dato tanto spazio nel libro, ma io in verità dall’inizio tra poesie, romanzi e altro sono stato sempre coinvolto nella causa». Ed oggi? «Dopo una vita di grande coinvolgimento guardo in faccia la realtà ed è brutta, sono disilluso totalmente sulla pace, l’unica cosa che mi sostiene è l’ammirazione per il popolo palestinese che non vuole morire» [all’Ansa] • Sulla guerra a Gaza: «Sono in una fase di disperazione come credo tutti noi, mi sento senza speranza: Netanyahu continua a bombardare Gaza e fare incursioni in Libano e io sono sempre di più convinto che Hamas il 7 ottobre abbia aperto le porte della Palestina per autorizzare Israele a massacrare il popolo palestinese. Ma una cosa è emersa: la questione della legittimità di uno stato palestinese è, basta vedere le innumerevoli manifestazioni nel mondo, al centro dell’attenzione internazionale come mai nella storia. E alla resistenza del popolo palestinese va la mia totale ammirazione». Cambierebbe qualcosa di quel libro? «Penso che Netanyahu non ha vinto la guerra, i palestinesi sono là. Il paradosso del primo ministro israeliano è che Israele non potrà mai vincere perché non si può sterminare un popolo intero». In questo contesto così disperato uno scrittore, un intellettuale, una voce dalla cultura può servire? «No non c’è intellettuale che tenga in questa situazione di odio, il dialogo servirebbe eccome alla pace ma non c’è spazio, è solo la guerra ad occuparlo del tutto» [all’Ansa] • Che finale vede per questa tragedia? «Non lo so davvero, se non si ferma questo ciclo che vede anche americani e inglesi come fornitori di armi per Israele, davvero non so. Forse Dio lo sa».
Religione Lei è credente? «No, anche se i miei genitori lo erano. Quando ho studiato il Corano e i testi islamici (e l’ho fatto in maniera intensa), capii che la religione era stata creata dagli uomini per guarirli dalle loro angosce. Fornisce materia di civiltà a un popolo e a un Paese» [Leonardo Martinelli, Tuttolibri] • E lei ci va in moschea? «No, io osservo, rifletto e scrivo» [Cesare Martinetti, Tuttolibri].
Amori Sposato con Aïcha, quattro figli: Merième (la figlia del Razzismo spiegato a mia figlia e dell’Islam spiegato ai nostri figli), Ismane, Yanis e Amine.
Titoli di coda «La vita, non è un viaggio tranquillo».