la Repubblica, 30 novembre 2024
Nella fabbrica cinese di Babbo Natale
YIWU – «E ora?». Nel suo negozio di palline colorate per gli alberi di Natale il signor Fu sghignazza quando sente il nome di Donald Trump. «Durante il suo primo mandato siamo riusciti a contenere gli effetti dei dazi. Ma ora?». In questo che è il supermercato del mondo dove tutto si vende e si compra – pensate ad un oggetto qualsiasi, qui lo troverete – c’è una cosa in cui Yiwu eccelle più di ogni altra: il Natale. Dimenticatevi la Lapponia, è qui in questa città di poco meno di due milioni di abitanti a 350 chilometri da Shanghai che si fabbrica la nostra festa. Gli alberi finti per il salotto, le ghirlande alle porte, i festoni, i babbi natale, le renne pupazzo è molto probabile siano arrivati da uno di questi negozi dell’immenso “Centro internazionale del commercio” tra i quali è facile perdere l’orientamento: Yiwu produce quasi l’80% dei prodotti natalizi venduti nel mondo. Trump, con le sue minacce di superdazi sul Made in China, rischia di trasformarsi nel Grinch che rovina la festa.
Non quella di quest’anno, gli ordini sono partiti da qui già in estate. Ma il Natale 2025 chissà. «È ovvio che sono preoccupato, gli Stati Uniti sono uno dei miei mercati principali», continua Fu. «Però vediamo come va. Se ci saranno meno ordini potremo gestire quelli che arrivano da altri Paesi. Ora dobbiamo dire di no perché non abbiamo tempo».
Popolo di commercianti pragmatici i cinesi: se non venderemo più agli americani vorrà dire che venderemo a qualcun altro, ti ripetono. Le opzioni non mancano: c’è tutto il potenziale della Via della Seta da sfruttare, c’è tutto il Sud Globale da corteggiare. E a vendere a “qualcun altro”, riducendo gli affari con gli Usa, già lo fanno in molti, memori della prima guerra commerciale scatenata dal tycoon. Ora che se ne prospetta un’altra, i commercianti di Yiwu potrebbero ritrovarsi invischiati in qualcosa di più grande di loro: ma forse la soluzione l’hanno già trovata.
Passeggiando – o, meglio, perdendosi – tra i cinque distretti che compongono questo gigantesco bazar si vedono cartelli in spagnolo per il mercato centro e sudamericano («soprattutto Messico e Brasile», dice la signora Huang nel suo cubicolo pieno di giocattoli e peluche). «Anche con l’Europa gli affari vanno bene, vendiamo tanto in Spagna» (ha appena compiuto 10 anni la ferrovia Yiwu-Madrid). E insegne in arabo («andiamo forte a Dubai», spiega la commessa di un negozio di ceramiche). Sono cresciuti i commercianti mediorientali e africani che si aggirano per gli immensi corridoi con taccuino e penna accompagnati da interpreti cinesi pronti a piazzare ordini: chi piatti e posate, chi batterie di pentole, leggings, tappetini per il bagno. Sì perché qui a Yiwu non si vende solo il Natale, ma qualsiasi oggetto che affolla le nostre consumistiche esistenze.
Piante finte, lampade, calzini, matite, l’elenco può continuare all’infinito. Settantacinque mila negozi (che a visitarli tutti, anche soltanto per 1 minuto l’uno, ci vorrebbero 52 giorni) che vendono oltre 2 milioni di prodotti diversi, vetrina di una singola azienda. Qui il mondo viene a rifornirsi di tutto. La più grande rivendita all’ingrosso di merci a basso costo del pianeta. I piani di Trump che ha promesso dazi al 60% e qualche giorno fa ha minacciato un altro 10% – farebbero però aumentare i costi per gli importatori americani e potrebbero comprimere i profitti dei cinesi. Qualche venditore ti dice che potrebbe abbassare un po’ i prezzi per andare incontro agli stranieri. Oppure guardare altrove. Basta dare un’occhiata ai dati per accorgersi che a Yiwu il commercio con gli Usa è sì aumentato del 42,4% nei primi 9 mesi del 2024 arrivando a 76,28 miliardi di yuan, ma quello verso l’Africa e l’America Latina è stato più alto, 101,73 e 95,46 miliardi. E il 60% dei prodotti finisce nei Paesi della Belt&Road.
Wong che produce alberi di Natale e renne nel vicino mercato di Jinfuyuan ti dice che «il Natale ci sarà sempre, e dunque queste cose gli americani le compreranno sempre». Nessun’altra nazione ha la catena di approvvigionamento e l’infrastruttura per creare il Natale (e non solo) in tali quantità: gli americani non hanno opzioni più economiche, dice. Più preoccupata sembra invece Xixi, che vende giochi da tavolo, ma pure miniature di slot machines e set per il “beer-pong”. «Noi esportiamo molto in Messico: e se Trump aggiungerà dazi anche a loro? È tutto collegato».
Fu con le riforme lanciate da Deng Xiaoping che Yiwu iniziò a sperimentare il libero mercato: la provincia dove si trova, lo Zhejiang, è stata pioniera nello sviluppo delle imprese private in Cina. E dopo miliardi di investimenti pubblici, milioni di metri quadrati di esposizione permanente, lavoratori da ogni angolo del Paese, manodopera che costa poco e una rete logistica molto conveniente, Yiwu è oggi il più grande mercato all’ingrosso del mondo.
Li, la signora che vende vetri e che seduta davanti al suo pc controlla gli ordini mentre ci offre del tè caldo, lo dice senza giri di parole: «Sui dazi, alla fine saranno gli americani che ne pagheranno il prezzo. Noi continueremo a vendere nel resto del mondo». Non che il governo a Pechino non sia preoccupato da Trump, lo è eccome. Almeno qui, però, sembra sempre Natale. Anche per chi non vende soltanto alberi e renne.