Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  novembre 30 Sabato calendario

Le lettere di Giulio Bollati

Non si finirebbe mai di tornare a parlare dei grandi dell’editoria, come Giulio Bollati. Che fu non soltanto un editore lungimirante («Bollati è sempre quello che vede più chiaro e più lontano e largo», disse di lui il suo amico e collega einaudiano Daniele Ponchiroli), ma un intellettuale a tutto tondo. Nel centenario della nascita (Parma, 27 marzo 1924), sono stati riproposti i suoi saggi storico-letterari sull’Ottocento, e adesso esce l’atteso epistolario (Lettere e scritti editoriali, a cura di Tommaso Munari, Einaudi). Che offre il meglio dell’editore e dell’intellettuale nel lungo arco temporale cha va dal 1949 al 1980, cioè nel trentennio in cui lavorò all’Einaudi (sarebbe tornato per breve tempo nel 1985, durante l’amministrazione controllata). 
Bollati era anche epistolografo maximus, impareggiabile: ogni sua lettera è un esercizio di eleganza retorica e di stile, anche quando usa toni tutt’altro che morbidi. Arrivò in Einaudi venticinquenne, appena laureato a Pisa con Luigi Russo, e anche grazie al suo talento di stratega e diplomatico (era lui stesso a dirsi «affetto da morbo della diplomazia») conquistò subito l’editore, diventandone il suo braccio destro e insieme, nel tempo, la coscienza critica (con risvolti aspramente polemici). Ghost writer eccelso, scriveva lui le lettere più delicate firmate da Giulio Einaudi, ma anche gli interventi per incontri e convegni a cui partecipava l’editore. Si veda la radiografia dell’editoria italiana scritta in vista di un viaggio di Einaudi a Londra, con la messa a fuoco della figura dell’editore come commerciante di idee. E la relazione dell’anno dopo in cui Bollati fa dire a Einaudi, in occasione di un soggiorno americano, che l’editore deve pensare al proprio lavoro come a «un vero e proprio servizio pubblico», consapevole del fatto che «i beni che egli commercia sono beni morali, il cui valore non può misurarsi in cifre contabili». Pensieri oggi impensabili, così come la convinzione che la qualità debba precedere sempre la preoccupazione sulla quantità e che però «uno sviluppo sano dell’editoria è in stretto rapporto con le attrezzature culturali di base del Paese in cui si opera, vale a dire le scuole con quello che vi si insegna e le biblioteche pubbliche di cui può disporre la popolazione». 
Bollati fu promosso a dirigente già nel 1955, con il compito «di fare da ponte tra ideatori ed esecutori, tra redazione e ufficio tecnico, tra ufficio tecnico e vendita», in sostanza, con funzioni «di ufficio studi e insieme di ufficio di collegamento», come spiegò all’amico Gianni Rodari. Dice giustamente Munari che in trent’anni, cioè fino alle dimissioni del 1979 quando aveva raggiunto l’apice diventando direttore generale, Bollati «avrebbe maturato una quasi totale identificazione con la casa editrice torinese». 
Le lettere danno l’idea migliore del ruolo organizzativo e dell’autorità culturale che Bollati esercitava in via Biancamano. Pochi mesi dopo il suo arrivo a Torino scriveva al responsabile della sede romana, Antonio Giolitti, le sue decise riserve su un saggio di argomento teatrale; qualche mese dopo rifletteva con forti dubbi sulla proposta di una storia cinese; nel maggio 1950 confidava al suo ex professore, lo storico Delio Cantimori, che non era ancora riuscito a parlare con Cesare Pavese per più di cinque minuti, restituendone un ritrattino rapido: «Con qualche apertura verso modi di vita più umani e socievoli, persino mondani – e in quei casi abbandona la pipa per la sigaretta e, suprema concessione a un mondo che non è quello delle sue colline, ordina non so quale classico whisky scozzese». In quei mesi, con Elio Vittorini affrontava la questione iconografica dei tre volumi dell’Orlando furioso, approntati per la collana dei «Millenni». Dove il curatore, lo stesso Vittorini, indicava il criterio delle illustrazioni con un assunto che Bollati avrebbe presto capovolto nelle successive scelte: accompagnare il testo con immagini che fossero il «corrispettivo pittorico» del libro e della sua epoca. L’attenzione e la sensibilità per l’iconografia sarebbero state centrali nel lavoro editoriale di Bollati, che alla corrispondenza cronologica teorizzata da Elio preferiva «l’illustrazione a rovescio», lo scarto delle «equivalenze, analogie o allusioni figurative». L’antico si mescolava col moderno anche nelle copertine, autentica specialità di Bollati, che si preoccupava personalmente di selezionare le immagini, sfogliando l’ampia dotazione di cataloghi che teneva in un «antro» al piano di sopra di via Biancamano 1. Esempio: la scelta di un Goya per Il consiglio d’Egitto di Sciascia perché «la rispondenza stilistica mi sembra particolarmente precisa». Una lettera sempre a Sciascia del 1962 ci ragguaglia sul ruolo tecnico e insieme morale che Bollati svolgeva nei confronti dei «suoi» autori, visto che toccò a lui rassicurare lo scrittore siciliano che chiedeva ragione delle basse tirature de Il giorno della civetta. 
Un arco amplissimo di incombenze, la più creativa delle quali fu l’ideazione di nuove collane e la ricerca di un’armonia per le preesistenti. Su questo versante gli si deve, soprattutto, il «Nuovo Politecnico», che dal 1965 si impose come una serie di saggi d’intervento erede della rivista vittoriniana. Munari ricorda il filone dei movimenti anti-istituzionali inaugurato da Franco Basaglia e poi proseguito con Erving Goffman, Noam Chomsky, Michel Foucault; ma segnala anche opportunamente un secondo filone, quello relativo alla teoria della fotografia, avviato con Walter Benjamin e proseguito con Roland Barthes, Gisèle Freund e Susan Sontag. Alla fotografia, del resto, Bollati aveva dedicato studi, riflessioni e tanta passione. 
Ci sono poi ovviamente i pareri di lettura sempre illuminanti e pieni di intuizioni critiche. Dispiace che qualche volta il commento non arrivi sempre a soddisfare le esigenze del lettore. Tornando al Consiglio d’Egitto (siamo nel 1961), Bollati confida all’autore di aver letto «d’un fiato» il suo libro e di averlo trovato «bellissimo»: «La costruzione è perfetta». Il cuore del romanzo, scrive Bollati centrando più in generale il senso della poetica di Leonardo Sciascia, «è nel contrasto tra la fede nella ragione e una dolorosa consapevolezza pessimistica del male che è nella storia e che si oppone alla ragione con ottusa e crudele inerzia». Nel 1974 scrive a Elsa Morante, terminata l’ultima pagina de La Storia, che «la lettura mi portava via come un aquilone» ed elogia lo «straordinario tessuto vocale, sonoro e cromatico, dotato della virtù di non descrivere, di non interpretare, ma di mimare le cose assecondandole nel loro continuo dondolarsi ora verso la precisione-realtà, ora verso la fiaba-magia». 
Tutt’altro tono, di non dissimulata severità, in una lettera inviata a Italo Calvino nel gennaio 1979 dopo la lettura del dattiloscritto di Se una notte d’inverno un viaggiatore: dichiarandosi «sconcertato e confuso», Bollati non esita a definirlo un libro non sbagliato «ma soltanto mal costruito, bisognoso di una stesura finale che elimini molte cose superflue, renda più evidente il filo che lo guida, rinunci soprattutto a essere tutto». E rivendica tra le righe un’idea di letteratura del tutto divergente dall’effetto intellettualistico e combinatorio che emerge dal romanzo: «La tua abilità nel condurre il gioco è sovrana, ma viene il momento in cui il lettore si chiede: perché? Per chi?». 
Scrivendo a Luigi Pintor, nel dicembre 1977, Bollati discute sulle condizioni per la pubblicazione, a cura di Mirella Serri, del Doppio diario del fratello Giaime, il redattore einaudiano e partigiano che, come Leone Ginzburg, non sarebbe mai tornato a Torino essendo stato dilaniato in Molise, ventiquattrenne nel dicembre 1943, da una mina tedesca. Le sue pagine, dice Bollati, hanno permesso ai giovani della sua generazione «un’identificazione che invece le tonnellate di antifascismo e ideologismo specializzato venute dopo hanno solo complicato»: l’incontro con gli scritti di Pintor aiuta a «recidere le bretelle retoriche che li tengono (i giovani) sospesi eternamente a qualche metro dal suolo». Questo è il modo di scrivere di Bollati, tra ironia, precisione di giudizio e sostenutezza metaforica. Si potrebbe continuare a pescare a piene mani dall’epistolario curato da Munari, con il rammarico di essere di fronte a una necessaria selezione che tiene fuori, per esempio, le lettere bellissime che verranno dopo il periodo einaudiano, quello che riguarda, dal 1987, l’editore in proprio, quando la sorella Romilda rilevò la proprietà della Boringhieri per fondare la Bollati Boringhieri.
Non mancano invece un paio di testimonianze anche durissime della rottura con Einaudi, come quella dell’11 settembre 1978 che accompagna la lettera di dimissioni, in cui Bollati denuncia il «dualismo» insopportabile, gli attriti e sostanzialmente il dissenso rispetto alla politica editoriale impostata sulle grandi opere. A Franco Fortini, nel 1980, dirà di non perdonare a Einaudi «di non saper portare la sua decadenza a testa alta»: «Gli è sempre mancato un paio di scalini, non più, per essere un grand’uomo». E con Cesare Cases rincarerà la dose, denunciando il «centralismo anarchico» dell’editore, «basato sulla volontà di potenza e sulla poca stima dell’umanità in generale». Una storia gloriosa finita male.