La Stampa, 6 dicembre 2024
Intervista a Luca Carboni e Cesare Cremonini
Il posto dei miracoli, a Bologna, si chiama San Luca. È un santuario mondano e mistico, laico e spirituale. Una casa per pellegrini, innamorati, disgraziati, devoti, atei che vanno lì a pregare, correre, camminare, dimenticare, respirare, sopravvivere. Ci si arriva da un porticato di 3.796 metri, il più lungo del mondo. E si vede, arrivando in città, prima della città. Si vede dagli Appennini, dai colli, da certi vicoli. Tutta Bologna sembra essere fuori San Luca, il suo cortile. Cesare Cremonini lo vede da casa sua e dal suo studio, tutti i giorni, ma la canzone che gli ha dedicato, San Luca, è il secondo singolo di un disco nato in Alaska: andare dall’altra parte del mondo lo ha portato a casa. «Ho temuto fosse una canzone troppo locale, provinciale, finché non ho trovato Luca», dice alla Stampa, seduto nel suo studio a due passi da casa. Luca è Luca Carboni, che gli siede davanti, con gli scarponcini verdi, la felpa, il sorriso silenzioso, il fare timido e fiducioso, new wave. Tra loro ci sono vent’anni, pochi centimetri, e questa canzone enorme, che non parla di niente e fa tutto, è una canzone di fede. È la prima volta che si parlano da quando l’hanno registrata, e stanno decidendo dove suonarla, e come, e quando, insieme, dal vivo, durante il tour del disco. Sanno che è inevitabile. «Le persone mi urlano mentre sono in macchina per dirmi “Che pezzo, San Luca!”. Non so neanche come facciano a riconoscermi e a vedermi, dall’altra parte della strada», dice Carboni.Mentre Cremonini scriveva San Luca, lui combatteva un cancro. E quando lo ha raccontato, la scorsa estate, in un’intervista al Corriere, Cremonini, che non ne sapeva niente, perché nessuno sapeva niente, ha capito cosa fare del pezzo: «Sapevo di forzare la mano, ma sapevo anche che non potevo non farlo, quindi ho chiamato Luca, gli ho detto che avevo questa canzone e che avrei voluto che la cantasse con me».Reazione?Luca Carboni: «Ho aspettato tre giorni per ascoltarla: ero fermo da tempo per via della malattia e avevo i miei pudori sul riavvicinarmi alla musica. Dipingevo, camminavo e poco più. Mi terrorizzava la possibilità che fosse un pezzo che non mi rappresentava, soprattutto perché avevo vissuto e vivo ancora un rapporto molto particolare con San Luca: da quando ho ricevuto la diagnosi della malattia, sono andato a camminare ogni giorno per vederlo, dalla mia casa sugli Appennini. Camminavo e pregavo e parlavo con la Madonna. E lo faccio tuttora. Poi ho preso coraggio e ho ascoltato: era tutto perfetto. Ho capito che era un miracolo di San Luca, perché è difficilissimo trovare dei punti di contatto così profondi con un altro artista che stimo, conosco, ma con cui non ho mai condiviso una cosa come questa».Cesare Cremonini: «Mi ha colpito che la sola cosa che Luca mi ha chiesto è stata di poter cantare lui la parola felicità. Io avevo già in testa il momento in cui lui doveva entrare, cioè quando la canzone fa: “Io non la so fare una preghiera, chiedo solo quello che si avvera, così sono sicuro"».È così, Carboni: lei non la sa fare una preghiera?LC: «Mia madre mi ha sempre insegnato a pregare per essere tramite della bellezza e riconoscerla. E dato che ho avuto la fortuna di fare musica, quello che chiedo ancora oggi è di essere tramite e strumento di quella bellezza. Non dico l’Ave Maria, faccio questo».E ci va in chiesa?LC: «Ho servito messa fino al mio secondo album. Al matrimonio di Gaetano Curreri, il cantante degli Stadio, Lucio Dalla era testimone e io chierichetto. La chiesa più bella per me, però, è il mare».Cremonini, lei prega?«Certo, da quando ero bambino. E ho sempre chiesto: ti prego, mandami una canzone. Quando ero piccolo, andavo nella chiesa dei Servi, a Bologna, dove c’è un altare dedicato a Venanzio Quadri, che morì giovanissimo, poco dopo essere diventato frate, e scrivevo sempre sugli annali che c’erano lì: ti prego, puoi farmi scrivere un’altra bella canzone e farmi fare un gol domenica? Non ho mai chiesto di farmi diventare capace di scrivere canzoni, ma di passarmene una. Soprattutto alla Madonna di San Luca, che ha uno sguardo molto giudicante, ti ascolta se ti sei comportato bene, ti punisce se ti sei comportato male».LC: «Ed è una madonna nera, di arte bizantina, come ce ne sono diverse in Italia. La leggenda dice che era stata dipinta da San Luca evangelista. Io non ho mai sentito il giudizio, e ci sono sempre andato con tutti, ho fatto moltissime interviste e foto, incluse quelle di Farfallina, lassù».In Farfallina c’è un verso che dice: “Ho bisogno di qualcosa che non c’è”. Fare gli artisti ha a che fare con il cogliere la bellezza o inventarla? La vita ha un valore che inventiamo noi, la sopravvalutiamo per farcela andare bene, perché quello che vogliamo, appunto, non c’è?CC: «Le canzoni a cui riconosciamo il valore più grande sono spesso atti di speranza sulle macerie. Io credo profondamente nel fatto che le canzoni non debbano parlare di dolore perché sono quasi necessariamente la reazione a un profondo dolore. La vita è una fuga perenne dall’affondare e quindi una canzone è la possibilità di un equilibrio fra dramma e redenzione, tra annegare e nuotare».LC: «Per me qualcosa che non c’è, c’è sempre. Quello che inventiamo, lo portiamo a esistere. Se non avessi raccontato in un’intervista della mia malattia, Cesare non mi avrebbe chiamato per cantare insieme San Luca, e questa canzone sarebbe stata diversa, la sua bellezza sarebbe implosa. E poi sì, certo, inventiamo, ma questo non significa che sottovalutiamo la vita o che la vita non abbia una sua bellezza che noi possiamo cogliere e raccontare anche quando non ce l’abbiamo».Vi sentite in dovere di dire: la vita vale la pena?LC: «Sì. Io faccio arte con molta leggerezza. Ma poi c’è sempre il giorno che scopro, o che mi fanno scoprire, che ho fatto quella cosa lì, che a qualcuno ho trasmesso un senso, un palpito, e quindi sono servito, anche se inconsciamente, a qualcosa di così importante: ho ricordato che vivere ha sempre senso, e che essere qui è bello e importante. Perché la vita vale la pena. La vita vale la vita».CC: «Mi risulta difficile prendermi una responsabilità se non mi sento un merito. E io non sento mai il merito di aver fatto una canzone, perché le canzoni nascono da sole e vengono fuori con le parole. Il compito che sono sicuro, fin da bambino, di aver protetto e per il quale sacrifico tante cose e per cui a volte faccio senza volerlo male agli altri, è essere lì a farle nascere: ho colto un dono e lo devo proteggere. Dopodiché, io e te, caro Luca, prima o poi saremo andati e quello che resterà è qualcosa che non dovrebbe portare il nostro nome. A me piacerebbe che San Luca restasse come una canzone e basta, non come una canzone di Carboni e Cremonini e Davide Petrella, che è un amico eccezionale, una delle poche persone che ho incontrato nella mia vita e con cui riesco a creare imbuti. La realizzazione massima della mia esistenza sarebbe cancellare me, togliermi, perché io sono solo un disturbo per questa canzone. È stupendo fare album, concerti, divertirsi, arricchirsi, ma poi quando saremo tutti andati, le canzoni che resteranno, se resteranno, saranno della gente e i nostri nomi saranno solo un fastidio. La vera canzone è quella, mentre stai scrivendo, non ci sei più. Ragazze facili e San Luca sono le due canzoni di questo disco in cui sono riuscito a star fuori, a essere un semplice canale, senza provare niente, né piacere né dispiacere. Ecco cosa sogno: di non sentire più dire “la nuova canzone di Cremonini”. Che bello sarebbe il mondo se potessimo solo dire: “C’è una nuova canzone. Si chiama San Luca”. Che lusso».Carboni, le suona questo discorso? Lei ha scritto canzoni con dentro il suo nome, anche se una volta ha detto a Jovanotti che non sopportava più di sentir dire “Luca Carboni”.LC: «Sì, mi sembrava che sminuisse tutto. Era diventato un personaggio. Dopo gli anni Novanta ho avuto un rigetto del fare il cantante, ma poi è passato anche quello: siamo quello che siamo».CC: «Quando diciamo il nome di un artista, nel linguaggio culturale e comune di quest’epoca, lo facciamo soprattutto per mettere a proprio agio il pubblico, che ha bisogno di dire chi gli piace e chi no. Chi dice di amare John Lennon lo fa per dirsi dalla parte giusta, per dimostrare che ha i gusti giusti. In verità, conta solo che quando ascolti Mind Games, capisci che quella canzone è molto più grande di Lennon, e che Lennon è soltanto l’essere umano che è stato il tramite di qualcosa di miracoloso».C’è stato qualcosa di miracoloso anche nel vostro incontro?CC: «Ci sono amicizie che nascono prima di incontrarsi, così come canzoni che nascono anni prima di venire scritte. Noi avevamo questo filo che è venuto fuori da sé, aiutato dal caso, dall’Alaska, dalla malattia. Chi lo sa perché. Quando ero in Alaska e guardavo fuori con un binocolo, a un certo punto, ho visto San Luca. E non avevo idea che poi avrei trovato Luca e nemmeno che una canzone avrebbe creato tra noi una sinergia come questa. È qualcosa che è scattato grazie alla musica in una maniera che dice tutto senza dire niente, che non ha bisogno di conferme. È un rapporto che è nato immediatamente nel momento in cui io ho allungato una mano. Ci siamo fidati».Frizioni?LC: «Per una E. Io dico “Capita anche a te” e dico la e aperta, alla bolognese, Cesare invece la dice chiusa. Mi ha chiesto di chiuderla, io ci ho anche un po’ provato, senza crederci troppo, e poi abbiamo lasciato perdere, lui è rimasto sulla sua posizione e io sulla mia. Cantiamo la stessa parola, insieme, ma in modo diverso. Ce lo stanno facendo notare in molti, c’è stato dibattito, la prima cosa che mi ha detto Linus, l’altro giorno, a Milano, è stata: bellissimo pezzo, però quella e… E invece per me è stupendo non aver trovato un accordo, quella diversità è il segno di una differenza generazionale. Io faccio parte di un cantautorato in cui nessuno parlava inglese, e l’aspetto gergale della nostra lingua era importante, era qualcosa da difendere».CC: «Da ragazzino cercavo di rompere quel te con la e aperta alla Vasco, mi sembrava inelegante e adolescenziale. E infatti Vasco e Luca hanno questa profonda adolescenza che rende la loro comunicazione, a mio modo di vedere, estremamente vincente e anche empatica, ma io quando ero piccolo ne ero infastidito. So bene che la bellezza della musica italiana è tutta nel fatto che una canzone di Vasco o Luca se non la cantassero loro, non avrebbe lo stesso valore. Il timbro della voce fa il peso specifico della canzone che canti. Noi diamo credibilità a quello che cantiamo con il nostro modo di cantare. Luca canta con la E aperta e rende bellissima la E aperta, che se lo faccio io, invece, suona male. Però poi mi sono detto che la gente ci avrebbe preso in giro, quindi ho chiesto a Luca di adattarsi: era il mio disco, si doveva fare come dicevo io. Niente da fare. Però, almeno il vocabolario dice che ho ragione io, la dizione giusta è con la e chiusa».LC: «E dire che da ragazzo avevo fatto anche la scuola di recitazione dell’Antoniano. Ma niente, ho imparato l’arte e l’ho messa da parte. Quando suonavo con la mia prima band mi vergognavo talmente tanto che spegnevo il microfono e facevo finta di fare i cori. Ma non mi vergognavo per l’accento bolognese: lo avevamo tutti, non ci preoccupavamo di risultare provinciali».Qual è il prezzo più alto che si paga su un palco?CC: «Avere abbastanza gioia da darla alle persone. E questo è uno sforzo personale di cui non puoi essere strumento: devi metterci tutto te stesso. È un compito professionale difficile ma le persone ti lanciano addosso con una violenza fortissima una necessità, un desiderio di gioia fortissimo e tu per essere all’altezza di tutto questo hai bisogno dell’aiuto del Signore. Ho chiesto proprio questo alla Madonna di San Luca, l’ultima volta che ci sono andato: dammi la forza di dare gioia, quando andrò in tour».Carboni, un verso come “si può scoprire che è dolce anche morire”, oggi, lo scriverebbe ancora?LC: «Certo che sì. Anni fa era solo un’intuizione. Ora alla morte ci sono andato vicino e so che è vero». —