La Stampa, 6 dicembre 2024
Le donne che fecero l’Italia
Nel 1884, nel pieno del progetto pedagogico nazionale del “fare gli italiani”, il facente funzioni di sindaco di Roma Leopoldo Torlonia pensò di dedicare un viale del Pincio, che si stava configurando come pantheon a cielo aperto dei più alti ingegni d’Italia, alle donne illustri della Penisola. La Commissione busti e lapidi della capitale approvò infine l’erezione delle erme di Vittoria Colonna e Cornelia madre dei Gracchi, ma respinse l’idea originaria di un intero viale da riempire di onoranze marmoree al femminile. Quel vuoto monumentale è stato colmato, per l’Ottocento, dagli studi di storiche e storici che negli ultimi anni hanno alimentato la ricerca sul contributo delle donne al Risorgimento.La Storia precedente, scritta prevalentemente dagli uomini, si era dimenticata di loro e le aveva relegate e costrette a semplici comparse, in posizione subordinata rispetto ai ben più noti compagni, figli, fratelli. E tuttavia le donne seppero trasformare i salotti in luoghi di formazione di un’opinione politica nazionale, furono epicentri di importanti reti di relazioni, composero saggi e coraggiosi versi patriottici (nel 1851 Laura Oliva Mancini, esule partenopea a Torino, fece infuriare l’ambasciatore borbonico Canofari per i versi da lei declamati in pubblico a sostegno dei patrioti incarcerati nelle prigioni napoletane).Le guerre rappresentarono un fattore di accelerazione e di opportunità per la partecipazione femminile, ad esempio con il Comitato per il soccorso ai feriti gestito da Cristina Trivulzio durante la Repubblica romana del 1849 o con gli ospedali allestiti dalle donne bresciane sotto la guida di Carolina e Felicita Bevilacqua. Se molte oltrepassarono il perimetro militare, come vivandiere al seguito degli eserciti o imbracciando il fucile sulle barricate, come Luigia Battistotti Sassi durante le Cinque giornate di Milano, altre rinunciarono a combattere ma imbracciarono le armi del sostegno e dell’educazione (Laura Solera Mantegazza, fondatrice del Pio Istituto di maternità per i bambini lattanti e slattati di Milano, confessava nel 1849 al marito: «Quanto mi duole di non esser a Roma anch’io vorrei esservi solo per soddisfare al primo bisogno di chi ama la patria, di trovarsi dove fare la pugna, dove si decidono i suoi destini. Non ho mai tanto maledetto il mio sesso!»).La fine degli anni Cinquanta corrispose a un rinnovato impegno delle donne. Accanto a una pionieristica adesione alla Società Nazionale Italiana fondata da Manin e La Farina, gruppi di signore raccolsero fondi per il riscatto patriottico e per le imprese garibaldine, istituirono “Comitati pro-feriti” sui campi di battaglia e in Sicilia; a Genova si costituì un drappello di «sorelle italiane» per assistere i feriti dei reggimenti regolari: un arcipelago ancora in larga parte inesplorato.Eppure le donne rimasero escluse di fatto da un atto dei momenti fondativi della nazione, il voto per i plebisciti di annessione. Private dell’esercizio della cittadinanza, alcune tra le più dinamiche si organizzarono con modalità e forme di aggregazione autonoma e parallela: promossero sottoscrizioni e veri seggi alternativi, e inviarono ai governatori dei territori annessi al Piemonte sabaudo elenchi di migliaia di suffragi, dimostrando notevoli capacità organizzative, di reclutamento, di gestione del processo autonomo di raccolta di firme tra ceti diversi, di certificazione delle identità. Così facendo si auto-elevarono al rango di cittadine di una nazionalità desiderata, anche in nome e per conto di altre donne.Nonostante questi tentativi, nel periodo post-unitario l’azione femminile si vide restringere o negare spazi di collaborazione sociale e politica dalla tenacia dell’ordine patriarcale, frustrata da un liberalismo sordo a qualunque pratica partecipativa, che ipostatizzò il ruolo della donna nella sfera privata. Tale regressione fu certificata su un piano giuridico dall’art. 134 del codice civile unitario Pisanelli che, sancendo il principio dell’autorizzazione maritale, riduceva la donna sposata a condizione di eterna minorenne. Se la maggior parte delle italiane si rifugiò in una dimensione di disciplinamento domestico e di sottomissione a gerarchie prestabilite, altre si attivarono, quali autentiche vestali, nella conservazione e diffusione della memoria del Risorgimento: Adelaide Bono Cairoli, trasformando in museo la casa coi ricordi dei figli, martiri; Giuseppina Cavour con l’eredità dello zio e del fratello, morto sul campo di Goito nel 1848; Amelia Schneider Maroncelli, con gli oggetti personali del marito sopravvissuto allo Spielberg; Giuseppina Morosini, con i cimeli personali del fratello e degli altri eroi della Repubblica romana.Alcune avanguardie continuarono invece ad occupare la scena pubblica a lungo, alimentando forme di petizione politica. Una delle prime, ad esempio, fu in favore dei «condannati di Aspromonte» del 1862 (i garibaldini imprigionati insieme al loro capo ferito al piede destro); un’altra vide nel 1870 la mobilitazione di migliaia di donne di diversa provenienza sociale e geografica in favore di una petizione indirizzata al re Vittorio Emanuele II per ottenere la grazia a Pietro Barsanti, condannato a morte per tradimento in seguito al tentativo insurrezionale di una caserma di Pavia, patrocinata dalla marchesa Anna Koppmann Pallavicino Trivulzio. Le migliaia di firme raccolte non riuscirono a salvare il giovane dalla fucilazione e, come ultimo atto di protesta, la donna spinse il marito Giorgio a restituire al re il collare della SS. Annunziata, la più alta onorificenza di Casa Savoia. La marchesa Pallavicino protestò anche dalle colonne del giornale padovano La Donna, fondato dalla mazziniana Gualberta Beccari, avamposto dell’emancipazionismo italiano e della battaglia per la rappresentanza delle donne. Molta strada rimaneva ancora da fare, ma il percorso era segnato. —