La Stampa, 6 dicembre 2024
Un Veronesi disincantato
Sandro Veronesi, Settembre nero è il primo romanzo non ambientato nel tempo in cui scrive. È un suo desiderio di fuga dal presente?
«Sì, per una ragione semplice. Io ci metto tre anni per scrivere un romanzo, nei quali non vivo solo l’oggi, ma anche il tempo in cui si svolge il romanzo. Non avevo alcuna intenzione di vivere questo presente due volte. E magari di raccontare di gente che si lascia via WhatsApp».
Però è anche un tempo stimolante. Non suscita curiosità?
«Non mi ci riconosco più, soprattutto dopo il Covid. C’è stato un momento, tra un’ondata e l’altra, in cui sembrava possibile uscirne migliori. Poi, secondo me, ne siamo usciti peggiori: più rabbiosi e intolleranti di prima. Mi viene in mente Hemingway in Fiesta: “Come hai fatto ad andare in rovina?”, “In due modi, prima un po’ alla volta, poi tutto insieme”».
Cosa non le piace? Che non ci sono risposte o non c’è sforzo nel cercarle?
«Che si giunge alla deriva su cose che già non mi piacevano. Questa benedetta disintermediazione ha contaminato tutto: politica, società, linguaggio, pensieri e parole. Il potere dei social media è lampantemente un disastro. Sono un’immensa cloaca, eppure a essi si dà potere, c’è chi li confonde con la realtà e ci passa la vita».
L’Italia di mezzo secolo fa era un’epoca migliore?
«Non solo l’Italia, ma il mondo occidentale. Rispetto ad allora forse passi avanti li ha fatti il Terzo mondo, però qui si parla dell’Occidente. Quello era un tempo in cui c’era un futuro».
Direbbe Guccini, quando il mondo era ancora intero. Non si rischia l’idealizzazione di quell’Italia, rimuovendo le tragedie?
«Vero, c’era il piombo nelle strade ma c’era anche Bob Dylan o le polemiche di Pasolini e Calvino. Non idealizzo, ma la parola futuro è scomparsa. Non ne parla più nessuno».
Le radici del presentismo. Svolgimento.
«La tv, i social, poi pensi e parli in cento caratteri. Questa Italia, in fondo, è figlia di Berlusconi. Ma la colpa è anche nostra. L’esempio ai figli lo devono dare i genitori e li devono proteggere educandoli».
Si parla tanto di egemonia culturale. Quale è la cultura egemone oggi?
«Non ce n’è una sola. Il problema è che le egemonie si nutrono l’una dell’altra, proprio nella contrapposizione. Quanto più esasperata e imbecille è la cultura woke, tanto più forte diventa l’egemonia brutale del trumpismo. Un po’ come Hamas e Netanyahu: massacrandosi reciprocamente si sono giovati, rimanendo al potere».
Cosa dovrebbe saper oggi contrapporre la sinistra alla destra?
«La passione. Manca totalmente. Trump trasmette una passione brutale, la Harris neanche un po’. Mi fanno ribrezzo, ma quelli che sono entrati a Capitol Hill erano mossi da un furore negativo, violento, al quale non è stato contrapposto un furore positivo».
Due anni di Giorgia Meloni. È una rivoluzione o, in fondo, la solita palude?
«Che sia una donna a guidare per un partito di destra è abbastanza rivoluzionario. Mica le hanno dato la quota rosa, se lo è conquistato. Così come è una rivoluzione la sua presa del potere. L’esercizio invece è scadente, come la sua classe dirigente. Non c’è sostanza. E la radice postfascista non è stata affatto recisa, è ancora piena di linfa».
La destra declina comunque un’idea di cambiamento, la sinistra esprime una nobile conservazione.
«La sintesi è questa: non te la cavi solo con il politicamente corretto o con la denuncia. Devi entrare in contatto con le ragioni della rabbia. Sfidarla con un sentimento e un’idea collettiva di futuro, sennò il futuro sarà nelle mani di Elon Musk e di pochi altri burattinai».
Anche l’antifascismo, per come viene declinato, rientra nel politicamente corretto?
«L’antifascismo non è un patentino. È roba seria, difesa reale di valori. Andrebbe riletta una pagina di Una questione privata di Fenoglio. Il vecchio, che ha subito il fascismo sulla sua pelle, dice al giovane Milton: “Tutti li dovete ammazzare. Chi quel giorno non sarà sporco di sangue fino alle ascelle non venitemi a dire che è un buon patriota”. È agghiacciante, ma quella era la temperie».
Non andò così.
«Ed è appunto questa la grandezza dell’antifascismo. Poi è arrivata la Costituzione. Cioè: io non faccio a te quello che tu hai fatto a me. Non facciamone una caricatura alla moda per una dichiarazione di giornata».
Si è commosso al film su Berlinguer?
«No, perché non ho fatto parte di quel popolo. Ma mi commuovo di default quando si parla di quel partito. È stata una grande scuola politica, poi sono arrivati gli autodidatti».
Gli eredi hanno custodito male quella storia?
«Gli eredi custodiscono sempre male. Io sono un etrusco: i beni del morto devono essere seppelliti col morto. Hanno ragione in Francia a tassare l’eredità pesantemente. Le cose le devi fare, non le devi ricevere».
Che rapporto ha con la fede?
«La fede è un dono, e io non ce l’ho. Ricordo quando mi sono liberato dell’obbligo di pregare a dodici anni. Mi sono sentito libero. Scrivendo un libro sul Vangelo, mi è poi capitato di avvicinarmi al mondo cattolico. Mi sono accorto che ho più fiducia di prima nelle persone che credono».
Sono cambiati loro o è cambiato lei? In fondo la fede è una passione non triste.
«Vivono la fede come la cosa più importate, per questo li sento vicini. Però registro anche un cambiamento. Quando entrai nell’università dopo l’ultima occupazione del ’77 tutto era in mano a Cl e non c’era dialogo. Oggi sono ragionevolissimi, ci ho collaborato con grande gusto. La cultura laica sta ignorando i tanti movimenti che si sono adattati alla secolarizzazione, che era invece il demone di Wojtyla».
Quali passioni positive vede nella società?
«Ce ne sono tante, civili, culturali, ma isolate. Il problema è che diamo più importanza a un post rispetto a chi custodisce un museo. Mi viene in mente quel signore del film di Gianni Celati, grande raccontatore della pianura padana. Scende dal pullman e si chiede: “Dove dobbiamo guardare?” Ecco, noi stiamo guardando dalla parte sbagliata».
Abbiamo fatto un’intervista sul disincanto.
«È così. Ho fatto cinque figli. Ho creduto fino all’ultimo nel futuro. Ora non ci credo più. Un sesto figlio non lo farei».