Corriere della Sera, 6 dicembre 2024
Biografia di Aldo Biscardi raccontata da sua figlia Antonella
«Papà andava molto fiero della targa del Guinness dei primati. Il suo Processo era diventato il programma sportivo più longevo di sempre con lo stesso presentatore. “Abbiamo battuto anche il David Letterman Show!”, ripeteva con orgoglio». Antonella Biscardi sorride nel ricordare suo padre Aldo, morto a Roma l’8 ottobre 2017. Nella Chiesa di San Pio X, nel giorno dei funerali, un viavai di attori, politici e colleghi. Lo salutò perfino Maradona: «È stato un grande uomo, un giornalista gran conoscitore di calcio, che infuocava la passione che portiamo tutti nel cuore». La Var era stata introdotta da pochi mesi e lui aveva confidato alle persone più care che si sarebbe ritirato non appena la moviola in campo fosse diventata realtà.
Era la sua battaglia.
«Da inviato per Quelli che… il calcio, nonostante i 78 anni, girava gli stadi raccogliendo firme su dei quadernoni. La Var è stata la sua vittoria, ha fatto in tempo a vederla ma non a godersela. È il mio rimpianto più grande».
Antonella, cosa è rimasto oggi di Biscardi?
«La scorsa stagione abbiamo ripreso il suo Processo del lunedì. Siamo alla trentanovesima edizione, andiamo in onda sul circuito Netweek. La squadra è composta da me, mio fratello Maurizio, Dana Ferrara, alcuni giovani ragazzi e storici collaboratori di papà. Proviamo a capire cosa farebbe lui oggi, ne portiamo avanti lo spirito modernizzandolo. Le sue rubriche storiche sono rimaste intatte, la scheda di Fabrizio Bocca, il Moviolone, le bombe di mercato…».
È vero che non voleva che facesse la giornalista?
«Da grande tradizionalista molisano, anche un po’ maschilista, mi voleva insegnante come mamma. “Così potrai badare alla famiglia”. Ma ero cresciuta con il ticchettio della sua Olivetti 32. “Sappi che non ti aiuterò mai”, diceva. Alla fine mi laureo in architettura, l’altra mia grande passione. Ma cocciuto lui, cocciuta io. Il lunedì sera iniziai ad andarlo a trovare in studio».
Dove diventa la preferita di Andreotti.
«Era un uomo ironico e intelligente, amava la Roma. Passavo a salutarlo 15 minuti prima dell’inizio della trasmissione, parlavamo delle nostre vite, degli interessi personali. E poi rideva dei suoi acciacchi, viveva con leggerezza la vecchiaia».
Al Processo si collegò anche Pertini.
«Era il 2 gennaio 1986, Selva di Val Gardena, -23 gradi. Papà cercò di parlare col portavoce, ma alla fine intervenne il presidente in persona. “Mi dica cosa vuole Biscardi. In diretta? Va bene, ci sarò”. Ero in regia, c’era grande attesa. “Chissà se verrà davvero”, ci chiedevamo. Doveva essere un siparietto breve, rimase per oltre due ore, congelandosi».
Come era lavorare con lui?
«Pretendeva molto, la redazione era sempre sotto stress. Voleva la perfezione, la preparazione. Non ti diceva mai “bravo”, ma col tempo ti sentivi migliorato. Era il primo ad aver subìto una certa rigidità in famiglia, per svolgere al meglio una professione riteneva necessario lo studio. Di chi vedeva disposto al sacrificio diceva. “Questo farà strada”. Così è stato».
E a casa?
«Era molto riservato, anche nei gesti. Quando partiva per un Mondiale o un Europeo e stava via per più di un mese, chiamava me e mio fratello. “Quanto hai preso a scuola? 8? Perché non 10?”. Nostra madre Elsa sorrideva. “Non ci fate caso, è il suo modo di dare affetto”. Ma era un uomo estremamente ironico. Le interviste dovevano essere serie, dopo giocava a Tressette».
E a Scopone.
«Lo adorava. Che battaglie con Biagio Agnes, Sergio Japino e la Carrà».
Berlusconi provò mai a portarlo a Mediaset?
«La loro era un’amicizia di cuore, sincera, nulla veniva chiesto in cambio. Non un voto, non un lavoro. Berlusconi si ricordava il compleanno di mia madre, telefonava sempre a casa. “Aldo, faccia gli auguri alla signora Elsa”. Lo “sgub” di Kakà al Milan lo diede direttamente al Processo e non sulle sue reti».
Anche se lo “sgub” più importante fu il libro su Papa Wojtyla.
«Un’esclusiva mondiale, la prima intervista ufficiale di un Papa in un libro. Papà lo scrisse insieme a Luca Liguori, 208 pagine di colloqui con il Pontefice, registrati su nastro. Era cattolico, ma non un fervente praticante. Certo, era devoto a Padre Pio e ogni anno andava a Pietrelcina, ma i contatti col Papa furono umanamente molto forti».
Disse che grazie a quel successo si comprò la villa a Monteleone Sabino.
«Dove gli piaceva organizzare grandi pranzi. Detestava i ristoranti. “Li ho girati per una vita da inviato, ora basta”. Una volta venne anche Ben Johnson, che pretese a tutti i costi una bistecca. Non l’avevamo, attimi di panico. Il sindaco del paese fece aprire apposta la macelleria».
Mentre suo padre riuscì a far cantare l’Inno di Mameli alla Nazionale
«I giocatori restavano in silenzio e lui non lo tollerava. Telefonò a Ciampi. “Presidente, siamo gli unici a fare così, non è possibile”. La presidenza della Repubblica fece stampare un centinaio di pergamene e il Processo si aprì con gli ospiti in piedi che, con una mano sul cuore e l’altra a tenere lo spartito, cantavano l’inno. La partita dopo gli azzurri fecero lo stesso».
L’ha mai visto piangere?
«Poco, era cresciuto contenendo le emozioni, anche davanti ai lutti più pesanti. Mosca, Agnes, Brera… esprimeva il dolore con le parole».
Nel 2006 rimase coinvolto nello scandalo Calcipoli in seguito a delle intercettazioni con Moggi.
«Certo, si sentivano, ma non per manipolare la moviola come fu detto. L’Ordine dei giornalisti lo sospese per sei mesi in attesa della sentenza. Papà non poteva accettarlo e decise di non confermare la sua iscrizione all’albo. “Se non credono in me, perché dovrei restare?”. Ci rimase male, ne soffrì. Chi gli stava vicino ha dubitato, non è stato difeso dai suoi giornalisti e dal proprietario della rete nonostante la sua storia».
Era sempre circondato da donne bellissime: mai una scenata di gelosia da sua madre?
«Era una donna intelligente, si limitava a una battuta o a una domanda in più. Anche perché lui era molto furbo, tornava a casa e raccontava tutto. “Ho portato lei a cena, ho accompagnato quest’altra a casa…”. La rendeva partecipe, un’ottima strategia. Ma il loro amore era fortissimo. Si erano conosciuti a Napoli, papà le fece una corte serrata. Doveva trasferirsi a Roma per Paese Sera, ma non voleva allontanarsi da lei. Così affrontò la futura suocera. “Devo partire per lavoro, non la posso lasciare lì”. In sei mesi si sposarono. Aveva 25 anni».
Cosa direbbe del giornalismo di oggi?
«Si adeguerebbe al flusso, senza comprenderlo. Tutto troppo veloce e poco concreto. Se la prenderebbe con chi ha sempre il cellulare in mano e non usa la testa. Sarebbe complicato lavorare con lui».
Le manca?
«Ci parlo sempre, tutt’ora. Per me è un amico. In trasmissione ho la mia anteprima, un approfondimento meno calcistico e più di costume. “Sei troppo acculturata, scendi”, mi diceva. D’altronde il calcio per me è questo, dietro a un gol c’è il mondo. Ma ogni tanto me lo domando. “Forse ha ragione lui?”. Vedete, mi insegna ancora oggi».
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