Corriere della Sera, 6 dicembre 2024
Biografia di Umberto Motto
«Lo stadio era gremito. Eppure, silenzioso. Non si sentiva neanche il brusio che accompagna i minuti di silenzio. Muto. Guardavo dall’imbocco degli spogliatoi. Il gagliardetto in mano e il cuore che non ne voleva sapere di lasciarmi in pace. Ero il primo. Dietro, tutti i miei compagni…».
Fu come l’Umberto di Savoia che regnò una primavera. O l’ultimo imperatore cinese, che sedette sul trono da bambino. O il quinto dei Beatles, che entrò nel mito per uscirne subito. O quel tenore che sostituì Pavarotti al Metropolitan, ma una volta soltanto. Nella vita c’è sempre un predestinato alla gloria e destinato all’oblio. Un fiore di cactus che spunta e sfiorisce. Nel calcio, c’è stato Umberto Motto, professione terzino. Che a 19 anni fu il capitano dell’ultimo scudetto vinto dal Grande Torino, ma solo perché il Grande Torino non c’era più, schiantato a Superga. Con quattro partite ancora da giocare, e il titolo già assegnato in memoriam, Motto e gli altri ragazzi della squadra giovanile scesero in campo solo per l’onore della maglia, il gagliardetto in mano e il cuore in sussulto, «sulle sedie dei giornalisti garofani rossi e rosa legati da un nastro nero, la commozione era opprimente». Fu un Toro di riserve che vinse 4 a 0, forse perché gli altri accettarono di perdere. E nella domenica più bella della sua carriera di calciatore, l’esordio in A, al braccio la fascia del comando, Umberto si trovò a vivere la giornata peggiore della sua vita granata. «Tutto sembrava irreale. Era una partita che non contava niente e che contava tutto».
Io capitano, certo. Ma non così. Il ragazzino era cresciuto nell’adorazione dell’immenso Valentino Mazzola: «Ci fosse stata la tv, non sentireste parlare di Ronaldo! Valentino era un misto tra Di Stefano, Pelé, Cruijff e Maradona…». Anche Mazzola aveva visto il ragazzino negli allenamenti, intuendone le doti: «Motto», gli aveva detto un giorno, «tu sarai il mio erede, il capitano del Toro». La profezia di Valentino. Umberto l’aveva sognata, altroché: scendere in campo con gli Invincibili, «un giorno sarei diventato io il capitano del Toro. Il mio nome, Motto, da recitare come la filastrocca dentro altri nomi che i tifosi sapevano a memoria: Bacigalupo, Ballarin, Maroso... Ma non sapevo che quel giorno sarebbe arrivato così presto e in quel modo».
Gli Invincibili
«Mi sono portato dentro i loro insegnamenti e mi son preso l’impegno di trasmetterli»
Il 15 maggio 1949, Mazzola era morto. E l’Italia intera piangeva. Un lutto globale, il primo del dopoguerra. Che stupì, emozionò, convinse Dino Buzzati: «Bel merito – scrisse sul “Corriere” – saper dare calci a un pallone: val la pena, per una prestazione simile, farne dei superuomini, per essi sgolarsi, smaniare, soffrire, spendere un mucchio di quattrini? Così si pensava molto spesso. E ci voleva la tragedia del Torino per aprirci gli occhi». Undici giorni dopo la tragedia, «undici ragazzetti pallidi e muti con gli scudetti cuciti sulle maglie granata» (cronaca di Giorgio Fattori sulla «Gazzetta dello Sport») entrarono al Filadelfia e nel pantheon del pallone, per dimostrare che sì, valeva la pena. E qualsiasi partita non è finita, finché non è finita. E c’è sempre «la speranza di un altro futuro». E non era vero quel che dicevano quegli altri, gli zebrati, che Torino era una città troppo piccola per ospitare due squadre.
Il nome di Motto non vi dice niente? Imparatelo, allora. Assieme alla sua storia di Toro, una lezione di cuore che il capitano per caso s’è deciso a regalarci nel libro Il Toro all’improvviso (Cairo editore), scritto con Carlo Baroni, vicecaporedattore del «Corriere». «Umberto Motto ha fatto tutto, per il Toro», ricorda nella prefazione Urbano Cairo: tifoso a 4 anni, nel settore giovanile a 11, esordiente a 19, dirigente a 27, artefice dello scudetto a 46, ora maestro di vita sportiva. «“Del bel fare non ti stancare”, lo spronava suo papà. In quella frase ho rivisto mia mamma», dice il presidente granata, «ho risentito le sue parole, i suoi incoraggiamenti, le sue esortazioni: mi sono commosso».
Il Toro all’improvviso è come l’amore del film di Tom Hanks. Inaspettato. Travolgente. Un nuovo inizio, per sempre. «La chiamano nostalgia. Per me è solo gratitudine». O granatitudine, un tremendismo che non passa. A 94 anni, Motto guida ancora l’auto e sbanda nella passione. Non s’è dimenticato il romanzo della granata fenice che risorse dalle ceneri, grandi allenatori e carogne da panchina, l’era visionaria del Toro Talmone (il primo al mondo con lo sponsor!), Bearzot e Raf Vallone, Meroni e Giagnoni, la compagnia di Wanda Osiris che un giorno prese in prestito le maglie e non le restituì più, i furti degli arbitri e gli sgarbi dei «gobbi». Il Toro all’improvviso non è un album di foto ingiallite, dice Umberto: «Per me restano esperienze vive». Gli Invincibili erano «una famiglia, fratelli maggiori, mi sono portato dentro per tutta la vita i loro insegnamenti e mi son preso l’impegno di trasmetterli». Chi non dà tutto non dà niente, scrivevano nei vecchi spogliatoi: il motto di Motto, che in sole quattro partite diede tutto. Ora sta in panchina e aspetta, aspetta. «In attesa di un altro scudetto, che sono certo arriverà».