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 2024  dicembre 05 Giovedì calendario

Melania Mazzucco racconta Diana Karenne

«Quello di un romanzo su Diana Karenne era un progetto antico: mi sono imbattuta in lei quando ancora lavoravo alla Treccani e al Centro sperimentale di cinematografia, quaranta anni fa... Poi, negli ultimi cinque-dieci anni l’ho scritto e ho fatto le ricerche principali» dice Melania Mazzucco. Diana Karenne, o Dina Karren, o Dina Rabinovitch, o Nadejda Belokorska è la protagonista di Silenzio (Einaudi, pagg. 650, euro 24): una regina del cinema muto, soprattutto italiano (tra i suoi film: Passione tzigana, Lea e La signora delle rose, dove è anche dietro la macchina da presa). Una vera diva – attrice, regista, produttrice, sceneggiatrice, scrittrice e pittrice – dal 1914, quando arriva a Roma, fino alla morte, ufficialmente avvenuta ad Aquisgrana nel 1940. Ufficialmente è anche polacca, ma viene da Kiev, e si sente russa, infatti Karenne è un omaggio ad Anna Karenina, l’eroina russa per eccellenza. Insomma, un personaggio da romanzo... come L’architettrice Plautilla Bricci o Annemarie Schwarzenbach di Lei così amata, o il nonno della stessa Mazzucco in Vita (con cui ha vinto il Premio Strega nel 2003).
Melania Mazzucco, quindi frequenta Diana Karenne da tutta la vita?
«Quasi sempre, le storie dei miei personaggi mi accompagnano per tutta la vita e crescono con me, fino a che viene il momento giusto per scriverle. In questo caso mi serviva una doppia maturità: sia mia, di vita, sia nella ricerca».
È stato un lavoro difficile?
«Sì, innanzitutto dal punto di vista linguistico. Per Annemarie Schwarzenbach, che era una scrittrice svizzera di lingua tedesca, avevo imparato il tedesco; l’ho fatto anche con il russo, ma è più complicato, quindi mi sono fatta aiutare. E poi ci è voluta una grande esperienza d’archivio, nei vari Paesi d’Europa in cui Diana ha lasciato le sue tracce, e che sono molti».
Francia, Germania, Ucraina, Russia...
«Credevo fosse la storia di una straniera in Italia, invece era una donna inquieta ed errabonda, che ha seguito la storia del Novecento e cambiato identità molte volte».
Quante vite ha avuto?
«Io simbolicamente per il sottotitolo ho scelto Le sette vite di Diana Karenne, però probabilmente sono state di più».
Quando l’ha incontrata la prima volta?
«Da studentessa di cinema ero appassionata del muto. Ho potuto ancora vedere i film di Chaplin sulla Rai, al pomeriggio. Mi affascinava il poter raccontare una storia solo attraverso le immagini, pochi testi semplici e la musica di un pianoforte. A un certo punto sono diventata un’esperta di Greta Garbo: ho visto e letto tutto di lei. E anche di Francesca Bertini, un’altra diva dell’epoca».
Perché Diana scelse l’Italia?
«Quelli prima e dopo Cabiria furono anni gloriosi per il muto italiano: i film prodotti a Torino nel 1912 si esportavano ovunque, anche in Russia e l’industria cinematografica italiana era dominante. Se pensiamo a oggi... Diana Karenne qui trovò la sua America. Mi colpì perché non fu soltanto attrice ma anche produttrice e regista. Era qualcosa di più di una diva bellissima, costruita dai fotografi e dai produttori: era una donna che voleva creare le sue storie, dirigerle e produrle. Ma su di lei non c’era niente».
Come è possibile?
«Molti suoi film erano andati persi, così come tutta la sua produzione da regista e sceneggiatrice. Così, piano piano, con infinita pazienza mi sono messa sulle sue tracce, per dipanare la tela della sua vita. Una tela in cui si intrecciano aspetti di divismo e da femme
fatale, affascinanti e letterari, ma anche altri, che incontrano i grandi eventi del Novecento e che la rendono molto attuale, come il tema dell’esilio: Diana Karenne lascia la Russia, pur non essendo russa, nel 1914, si ritrova in Italia durante la rivoluzione e decide di non tornare più in patria; così, fino alla fine della sua vita, resta una apolide».
La Roma del 1914 sa già di dolce vita?
«Sì. Già allora, via Veneto era la strada dove divi e dive vivevano e passeggiavano. E già allora Roma era una città in cui l’imprenditoria era legata alla politica, diversamente da Torino, dove il cinema era un’industria e i produttori chiamavano i lavoratori operai. Soprattutto, all’origine del nostro cinema, insieme a Torino e Napoli c’era anche Roma: moltissime location esterne appaiono nei film muti dell’epoca, che poi girano il mondo. Mi affascinava raccontare questa Roma, miserabile e ricchissima, con una aristocrazia potente che amava il cinema, lo produceva e recitava nei film, cambiandosi il nome... E i ragazzini sognavano di diventare delle celebrità».
In questa Roma, Diana Karenne si aggira avvolta in un leopardo albino e fissa appuntamenti nelle chiese all’alba, per fare impazzire i produttori come Lou Salomé con Nietzsche...
«Era una diva: si occupava personalmente dei costumi di scena e degli abiti stupefacenti di tutte le sue apparizioni. Si presentava con pantaloni in seta o, anche in estate, con pellicce di animali che nessuno aveva mai visto. Aveva capito che l’immagine era il veicolo di promozione per una donna che, più che essere bella, seppe creare la sua bellezza».
Il suo è un romanzo storico, ma fa delle «incursioni».
«Sono il personaggio che guida questa inchiesta: ci sono anche io. L’occhio di chi cerca fa parte della storia».
Il titolo è Silenzio, ma la sua Diana parla moltissimo...
«C’è un gioco sul termine silent movie, in inglese, che per noi è il muto, ovvero il mezzo espressivo scelto da Diana Karenne, e il fatto che lei stessa a un certo punto abbia deciso di sparire, di cancellarsi; e poi il silenzio è anche quello che ha abbracciato le storie delle donne che hanno fatto qualcosa nel passato, il silenzio che scende su di loro».
Che cos’è «la vita sotto pseudonimo» di Diana?
«È un argomento che mi ha sempre affascinato, fin da quando ho iniziato a scrivere. Ogni pseudonimo è anche un parricidio, è non accettare una eredità, inventarsi un’altra storia ed essere liberi. Diana si è trovata numerosi pseudonimi e, ogni volta, si è reinventata una storia e una vita».
Perfino una morte?
«Anche questa è una storia affascinante. Le enciclopedie del cinema la danno morta ad Aquisgrana sotto le bombe, nel 1940; ma sono andata a verificare le fonti e non ho trovato nulla su questa morte. Non è reale. E ho letto in russo gli articoli accademici su Nikolaj, il suo compagno, in cui si parla di una relazione che va avanti ben oltre quell’anno. Forse mise lei stessa in giro l’informazione per sparire, dopo tanto successo: comunque, nessuno la trovò più».
Tranne lei?
«Eh... E le polizie di tutta Europa la sospettavano: una donna sola, bella e libera era difficile da incasellare. La credevano una spia. In tutti i dossier viene usata la parola intelligente, come qualcosa di per sé sospetta...».
Ma lei come la chiama?
«Dina. Un nome molto bello, di origine ebraica».