il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2024
Nanni Delbecchi ricorda Natalia Ginzburg
Nel tempo, non sono solo le persone a mancarci, ma anche le cose. Per esempio, i giornali: li scorri e ti manca una firma come ti manca un viso quando scendi in piazza. L’elenco è lungo, ma nessuno mi manca quanto mi manca Natalia Ginzburg per il suo modo unico di parlare al lettore, come se gli parlasse all’orecchio; così, più della firma ti manca la sua voce. Natalia Ginzburg era magra di una magrezza inesorabile. Il suo viso è una maschera lignea dai lineamenti dritti, fermi, ma attraversati dalla tristezza di un raggio invisibile, una brezza che increspa il mare al tramonto. Tutti elementi che si ritrovano nella sua scrittura. Capita che uno scrittore assomigli fisicamente al suo stile, ma in lei la sovrapposizione è totale. Stessa magrezza paratattica, stessa capacità di arrivare dritta dove l’intelligenza e il sentimento si toccano, il famoso nocciolo della questione.
Nei quarant’anni delle sue collaborazioni, dai primi anni Cinquanta fino al 1991, anno della morte, crepitano gli ultimi fuochi del giornalismo d’autore, quello che la rende per paradosso più attuale. Le piccole virtù (1961) e Mai devi domandarmi (1970), i primi due titoli della Ginzburg saggistica, riuniscono testi scritti per riviste come Nuovi Argomenti, Il Ponte, Il Politecnico, ma anche per settimanali a forte vocazione letteraria, come Il Mondo. Testi la biografia dove al contatto con la cronaca genera intuizioni illuminanti sull’evolversi della società. Specchi antichi dove si riflette il futuro, che poi è il nostro presente. “Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere”. Leggendo questo elenco implacabile, stilato da Natalia Ginzburg settant’anni fa, fa specie vedere come oggi tanta classe dirigente coltivi con solerzia tutte le piccole virtù, nessuna esclusa, e ignori le grandi.
Nel fermento degli anni Settanta, quando “intellettuale” non era ancora una parolaccia, molte firme illustri migrano dal morente salotto buono dei quotidiani, la terza pagina, alla prima, con pezzi capaci di scatenare la polemica. L’esempio obbligato è gli Scritti corsari di Pasolini, ma anche la Ginzburg è attiva prima su La Stampa, poi nel ‘73 Piero Ottone la chiama al Corriere della sera.
Nelle due raccolte successive, Vita immaginaria (1974) e Non possiamo saperlo (uscita nel 2001 con impeccabile cura di Domenico Scarpa) le riflessioni diaristiche, quiete e implacabili come sempre, si saldano all’attualità più incandescente. Con Pasolini condivide l’analisi sulla catastrofica industrializzazione dell’Italia e sul neocapitalismo trionfante (“Quello che detesto nel mio tempo è una falsa concezione dell’utile e dell’inutile. Utile viene oggi decretata la scienza, la tecnica, la sociologia… Il resto è disprezzato come inutile”); ma è tutto suo quel senso “di pietà universale” che la rende perplessa, allergica a ogni automatismo. Il privato è politico, si diceva allora, ma in Ginzburg è più vero il contrario, la politica diventa un fatto privato, viscerale, un lessico collettivo e insieme famigliare. Sensibilissima alle lotte del femminismo, lo rigetta però come confraternita (“Le parole ‘Proletari di tutto il mondo unitevi’ le trovo chiarissime. Le parole ‘Donne di tutto il mondo unitevi’ mi suonano false”), ed è pressoché certo che lo schwa farebbe orrore a colei che aveva fiutato i primi vagiti del politicamente corretto: “Le parole non vedente e non udente sono state coniate con l’idea che in questo modo i ciechi e i sordi siano più rispettati. Le troviamo artificiali e ci offendono le orecchie e francamente le detestiamo”. Rivendica di essere ebrea; ma di fronte al sequestro e al massacro degli atleti israeliani da parte dei terroristi palestinesi di Settembre nero nei Giochi olimpici di Monaco 72 stenta a prendere posizione. Scrive che gli ebrei e la tragedia della Shoah sono una cosa, l’aggressivo e arrogante Stato di Israele un’altra. Da che parte stare Natalia Ginzburg non solo spesso non lo sa, ma prova ripugnanza al doverlo sapere in un mondo che te lo impone in continuazione. Una ripugnanza all’opinionismo coatto da cui c’è molto da imparare: “È forse impossibile stare da una parte o dall’altra. Gli uomini e i popoli subiscono trasformazioni rapidissime e orribili. La sola scelta che a noi è possibile è di essere dalla parte di quelli che muoiono o patiscono ingiustamente. Si dirà che è una scelta facile, ma forse è l’unica scelta che oggi ci sia offerta”.
Può stupire che il testo che dà il titolo a Vita immaginaria sia una meditazione su come nella vecchiaia l’immaginazione tenda a restringersi, come una maglietta troppo lavata: “Da vecchi ci accorgiamo che non inventiamo più nel futuro ma nel passato, e che nell’emendare il passato ci muoviamo in un mondo di cose che riconosciamo impossibili”. Sembra un voltar le spalle all’attualità; e invece questa strenua difesa della vita interiore ci suona oggi più vera e necessaria che mai, oggi al potere sono andati gli algoritmi, e l’immaginazione rischia di finire nella raccolta delle cose inutili.