Avvenire, 4 dicembre 2024
Viaggio a Wa, il non Stato della droga
Ha le dimensioni della Svizzera. Fra le sue montagne aspre e impenetrabili vive oltre mezzo milione di persone. Eppure lo Stato unito dei Wa non figura in alcuna mappa né è riconosciuto dalle Nazioni Unite. Ufficialmente non esiste. È, per quanto tangibile, un “non-luogo”, un’utopia. O, meglio, una “narco-topia” poiché la sua storia e la sua esistenza sono indissolubilmente legate alla risorsa principale: la droga. Sono gli stupefacenti – oppio prima e, ora, anfetamine – a determinare i commerci, la politica, la vita quotidiana.
Narcotopia è, appunto, il titolo del libro-reportage, pubblicato in Italia da Adelphi (pagine 504, euro 30,00), di Patrick Winn, tra i pochissimi occidentali ad avere avuto accesso in questo narco- Stato nascosto all’interno dei confini del Myanmar eppure, di fatto, indipendente. Statunitense di nascita, reporter della Public broadcasting service (Pbs), la radio pubblica Usa, da quindici anni residente a Bangkok, Winn ricostruisce genesi ed evoluzione di uno dei popoli più diffamati dell’Asia. La dinastia cinese Qing definiva i Wa “barbari testardi”. Per gli inglesi, erano “sudici”, “senza dubbio selvaggi”. Washington li considera una “tribù di montanari narcotrafficanti”. In particolare, il suo governo-esercito – United Wa state army (Uwsa) – è un mostro che “avvelena la società americana per profitto”. Senza lasciarsi andare a giudizi manichei né a mitizzazioni ammiccanti, l’autore descrive, invece, una realtà complessa, sfumata, ambigua nella consapevolezza che “ogni impero necessita dei suoi barbari”. «Le origini dell’Uwsa sono costellate di impronte digitali americane. Non solo la Cia ha contribuito a creare le condizioni della sua esistenza ma uno dei suoi capi più influenti è stato anche una risorsa della Drug and enforcement agency (Dea)», dice Winn in Italia dove sabato parteciperà, a Roma, a “Più libri più liberi” in un incontro con Roberto Saviano e Giovanna Pancheri.
A differenza dei cartelli colombiani e messicani e dei loro boss, da Pablo Escobar a Joaquín El Chapo Guzmán, protagonisti di romanzi, film e serie tv diffuse in tutto il mondo, la storia dell’Uwsa e degli Wa è perlopiù sconosciuta. Per quale ragione?
«La “guerra alla droga” rappresenta il più lungo conflitto americano, in corso da oltre mezzo secolo. Poiché i suoi principali teatri di battaglia sono l’America Latina e le città degli Stati Uniti, molti dimenticano le origini nel Sud-Est asiatico. Qui i soldati americani hanno assaggiato, per la prima volta, l’eroina del “Triangolo d’oro”, prodotta in larga parte dai papaveri dei contadini Wa. Il punto è che si tratta di un territorio di difficilissimo accesso. I leader dell’Uwsa hanno scelto la strategia dell’invisibilità. Vivono nell’ombra, evitando media e pubblicità. Questa è la loro forza. Quelli asiatici sono i “signori della droga” più potenti anche se quasi nessuno conosce i loro nomi. Io stesso ho impiegato oltre dieci anni per avvicinarli».
Come ci è riuscito?
«È stato un colpo di fortuna. Dopo aver cercato più volte di contattare il Uwsa, alla fine, nel 2019, ho ricevuto un’email dall’ufficio relazioni esterne che invitava a conoscere un loro inviato nella città birmana di Lashio. Sono partito subito ma la riunione è stata annullata all’ultimo. L’interprete, però, a cui mi ero rivolto casualmente tramite un’agenzia di viaggi, si è rivelato essere il genero di Saw Lu, il numero tre dell’Uwsa. Il fatto che fossi statunitense e battista come lui, l’ha reso più disponibile a parlare con me. Così è iniziato tutto…».
Saw Lu è una figura romanzesca. Un misto tra un fondamentalista religioso, un attivista e un boss, disposto, però, a bruciare le coltivazioni di oppio in cambio di aiuti Usa per il riscatto degli Wa. Che impressione le ha fatto?
«Saw Lu mi ha affascinato fin da subito per la sua natura profondamente manichea. Per lui non c’erano sfumature tra bene e male, bianco o nero. Credeva fermamente nella malvagità del nemico e nella giustezza della sua causa. Una prospettiva opposta alla mia. Ho cercato, però, di offrire il suo punto di vista nel modo più autentico possibile. Ho anche cercato di verificare, ricorrendo a due o tre fonti indipendenti, le sue principali affermazioni. Non sempre ci sono riuscito, soprattutto per alcuni fatti risalenti agli anni Sessanta. In quei casi, con trasparenza, ho precisato di non avere riscontri».
Proprio come accaduto con i narcos latinoamericani, la genesi dell’Uwsa è legata alla politica Usa e allo spettro dell’avanzata del comunismo sovietico all’epoca della Guerra Fredda. Che idea si è fatto?
«Gli Usa hanno, formalmente, una politica di “tolleranza zero” nei confronti del narcotraffico. Nella pratica, però, non è così. Ci sono almeno due “politiche sulla droga”. Quella della Dea, agenzia creata per combattere il narcotraffico. E quella dei servizi segreti, disposti a cooperare con i narcos quando sono utili per il raggiungimento dei propri obiettivi. Il caso dell’Uwsa è emblematico. La Cia l’ha finanziato e sostenuto per anni nell’intento di contrastare l’influenza della Cina maoista. Quando lo scenario è cambiato, ha cercato di smantellarlo. Non ci è riuscita».
Cosa si potrebbe fare ora, dunque?
«Il presente e il futuro del narcotraffico sono le droghe sintetiche. Sono facili da fare e non presentano i rischi associati alle coltivazioni naturali. Questo le rende ancora più remunerative. Per produrre le metanfetamine sono indispensabili i precursori chimici che arrivano in gran parte dalla Cina. Senza un dialogo con quest’ultima, dunque, appare molto difficile immaginare un’efficace politica di contrasto. Non sembra, però, la linea dell’Amministrazione Usa, né di quella attuale né di quella futura».
Saw Lu proponeva di “pagare” gli Wa con investimenti sociali e la creazione di alternative economiche perché abbandonassero il narcotraffico…
«Potrebbe essere una mossa interessante ma politicamente molto costosa. Nessun governo se la sente di giustificare con la propria opinione pubblica un negoziato con i narcotrafficanti. Solo l’Onu avrebbe i margini di manovra per farlo. E per far sì che non diventasse una “remunerazione” per i boss bensì una politica di sviluppo finalizzata a dare alternative agli ultimi anelli della “catena umana del narcotraffico”».