il Giornale, 4 dicembre 2024
La Consulta smonta la riforma del 2001 Ma l’Autonomia tiene
Se avessero potuto, avrebbero dichiarato incostituzionale anche la Costituzione. È questo il nocciolo della sentenza depositata ieri con cui la Corte Costituzionale un po’ respinge e un po’ accoglie la richiesta di quattro regioni guidate dalla sinistra di smantellare la legge del governo Meloni sulla autonomia differenziata. Anticipato con un comunicato stampa il 15 novembre, il testo integrale della sentenza riserva poche novità: se non quella, rilevante, in cui la Corte mette in discussione non la legge del centrodestra ma la riforma costituzionale varata nel 2001 e confermata da un referendum popolare.
È la riforma che diede alle Regioni il diritto di prendere per sé competenze affidate allo Stato centrale. Venivano elencate sia le materie destinate a restare di competenza statale, sia quelle che potevano essere passate alle Regioni. È su questo elenco che si concentrano le pesanti critiche della Consulta: nell’elenco «vi sono delle materie alle quali afferiscono funzioni il cui trasferimento è difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà. Vi sono,
infatti, motivi di ordine sia giuridico che tecnico o economico, che ne precludono il trasferimento».
La Corte elenca le materie su cui dissente dalla Costituzione: commercio estero, ambiente, energia, reti di trasporto, professioni, comunicazione. I giudici non possono cambiare l’elenco. Ma fanno sapere che se qualche Regione otterrà dal governo la competenza su queste materie gli accordi «potranno essere sottoposti ad uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale». L’aggettivo «stretto» è un avviso fin troppo esplicito.
Per il resto, la lunga sentenza rispecchia le anticipazioni. La «legge Calderoli» non viene azzerata per intero, come pretendeva il più estremo tra i ricorsi, firmato dalla Puglia: al governo viene riconosciuta la facoltà di realizzare con una legge ordinaria la riforma costituzionale. Ma sul modo in cui la riforma è stata attuata si concentrano le critiche della Corte. La legge sopravvive, e venticinque articoli che le Regioni rosse volevano demolire vengono dichiarati legittimi. Ma tra i tredici articoli che invece vengono abrogati ci sono alcuni assi portanti. Tra questi, la possibilità di trasferire alle Regioni intere materie, e non singole funzioni, e la previsione che le Regioni
ricevano per le nuove competenze gli stessi soldi che prima spendeva lo Stato: questa norma per la Consulta «può cristallizzare anche la spesa derivante dall’eventuale inefficienza», vanificando uno degli obiettivi della devolution.
All’indomani del comunicato del 15 novembre, dal governo erano venute reazioni di cauta soddisfazione, visto che i timori di una cancellazione integrale erano forti. Ma nella lettura della sentenza integrale è palpabile l’influenza del magistrato che la firma, il presidente della Corte Costituzionale Augusto Barbera, per cinque legislature parlamentare del Pci/Pds. È il suo ultimo atto, il 16 dicembre andrà in pensione. E ha voluto lasciare scritto: «Esiste una sola nazione così come vi è solamente un popolo italiano, senza che siano in alcun modo configurabili dei popoli regionali che siano titolari di una porzione di sovranità». Era «l’unità giuridica ed economica della Repubblica», secondo Barbera, a essere messa in discussione dalla legge Calderoli.