La Stampa, 4 dicembre 2024
Koyo Kouoh: «Alla Biennale Arte porto la vita dei migranti»
Koyo Kouoh è la nuova Direttrice del Settore Arti Visive della Biennale di Venezia, con l’incarico di curare la 61/a Esposizione Internazionale d’Arte nel 2026. «Sono profondamente grata al Consiglio di amministrazione della Biennale e in particolare al suo Presidente, Pietrangelo Buttafuoco, per avermi affidato questa missione così importante e non vedo l’ora di lavorare con l’intero team».
«La vita è fatta di movimento, movimento di persone, movimento di idee. La vita è fatta di migrazione. Lei non sarebbe italiano se le persone non fossero migrate e, se le persone non fossero migrate, io non sarei una donna africana. Noi siamo perché altri sono migrati e altri saranno perché siamo migrati noi». Koyo Kouoh – nata nel 1967 a Douala, Camerun, emigrata nel 1980 a Zurigo, Svizzera, tornata da madre in Africa, prima a Dakar, Senegal, poi a Cape Town, Sud Africa, dove dirige (ha diretto) lo Zeit Museum of Contemporary Art Africa, il più grande museo d’arte contemporanea del continente – mi parla su Zoom dalla Giamaica. Lei è quello che fa: puro movimento, migrazione, le direzioni sono spesso opposte a quelle tracciate dal pregiudizio.
La prossima tappa sarà Venezia, la direzione della Biennale d’arte. In fondo il movimento è fondamento dell’arte.«Non è facile rispondere, se la vita è movimento lo è anche l’arte. Il mio lavoro è movimento: la realizzazione di mostre, la pratica curatoriale, il modo in cui lo faccio su scala globale, con artisti di tutto il mondo, ovunque e ho già partecipato a due Biennali quindi per me il mondo è la piattaforma: che sia Venezia, Dakar, New York o Kuala Lumpur».
Koyo, mi pare che la sua idea di arte sia ibridazione: portare da qui qualcosa in Africa, e dall’Africa qualcosa nel mondo. Sarà così per Venezia«Venezia è una straordinaria opportunità, anzitutto. Ogni due anni il mondo dell’arte converge a Venezia per sentire la proposta del direttore artistico e io, senza anticipare troppo le mie idee, vorrei uno spazio comune in cui artisti di tutto il mondo si relazionano con l’emotivo, il soggettivo, la politica e sperimentano l’interdipendenza dell’umanità. Perché credo fortemente nell’interconnessione delle persone, perché siamo tutti intrappolati uno nell’altro, tutti abbiamo bisogno dell’altro, soprattutto adesso che il mondo è caos. Sogno una Biennale armonica come una sinfonia, allegro, andante, su e giù».
Lei a tredici anni è andata a Zurigo dal Camerun. Dev’essere stata dura.«Naturalmente non fu una mia scelta: ero una bambina e ho seguito i miei genitori che si sono trasferiti per lavoro. Però, certo, ero cresciuta in una tipica famiglia africana, spettacolare, numerosa: c’erano la bisnonna, la nonna, gli zii e le zie, i cugini e le cugine. Li amavo tutti ma ogni tanto avevo bisogno di scappare: con un libro sotto l’albero di mango del nostro cortile, scappavo. Sprofondavo dentro García Márquez, dentro Toni Morrison e fuggivo via».
E a Zurigo?«Le mie amiche andavano in centro per negozi e io no. Un po’ eravamo poveri e non potevo permettermelo, un po’ i musei erano diventati il mio albero di mango in Svizzera. Visitare i luoghi dell’arte era un modo per essere trasportata, tecnicamente portata via: esposta a idee delle quali, altrimenti, sarei rimasta ignara. Leggere e visitare una mostra non sono due attività così diverse: le parole e gli oggetti sono spazi, contenitori di idee».
Da ragazza riuscì a venire nei musei italiani?«Oh sì, sì, sì. Oh mio Dio! L’Italia. Certamente. Tutta la storia dell’arte europea è basata sul vostro Paese. Ho visitato Venezia, Milano, Torino, Roma (dice alcune parole in italiano, ndr)».
Dove ha imparato l’italiano?«Oh, in Svizzera. E ascoltando Battiato. Cerco un centro di gravità permanente…».
Koyo, torniamo al Camerun. Perché lei parla sempre di sua nonna: un caposaldo della sua vita.«(Non parla per qualche secondo, ndr) Mi scusi ma mia nonna mi fa emozionare. Anzi, due nonne. La mia bisnonna morì quando avevo 20 anni, mia nonna quindici anni fa. Loro in famiglia erano due calamite, soprattutto mia nonna, ha cresciuto tutti. Ecco sì, era il centro di gravità. E poi lei non era educata nel senso in cui lo si intenderebbe in Occidente, ma era estremamente istruita su tutto ciò che riguarda l’umanità, la cura delle persone. Aveva una profonda conoscenza emotiva, una profonda intelligenza emotiva. E aveva uno straordinario senso dello stile».
Un’artista?«Oh sì. La gente la chiama moda, ma lei andava oltre la moda. Aveva una grande cultura sartoriale e la conoscenza di che cosa bisogna fare per abbellire oppure impreziosire tutto quello che sta intorno. Faccio un esempio stupido: nel tuo vestito, in un punto che nessuno vedrebbe, c’è un buco; mia nonna avrebbe detto: cambia quel vestito; chiunque avrebbe risposto: ma non lo vede nessuno; e lei: tu però sai che è lì. Penso che sia una lezione morale ed estetica. Ero già molto circondata dalla bellezza. E, voglio dire, non puoi crescere come un giovane africano della mia generazione e non avere un senso estetico».
Perché, dopo tutto quello che mi ha detto, ha deciso di studiare economia?«La mia è una generazione i cui genitori non credevano in nulla che fosse scienza sociale, materia umanistica. Credevano in una santissima trinità. La conosce?».
No.«In nome del diritto, dell’economia e della medicina (si fa il segno della croce e ride, ndr). Così mi sono dedicata all’economia. Non volevo diventare un’artista. Avevo ben chiaro che mi serviva un lavoro remunerativo, che mi avrebbe permesso di guadagnare da vivere e bla e bla e bla. Sono in Svizzera, studio economia: mi sembrava inevitabile. Però devo dire che oggi sono felice di sapere di economia».
Credo sia più facile gestire qualsiasi cosa se si sa di economia.«Sì, si impara a organizzare meglio. Lo vedo quando mi confronto con alcuni miei colleghi che non hanno un background gestionale o aziendale. Puoi occuparti di arte, di agricoltura o di medicina, e sempre ti servirà sapere di economia».
Ma è vero che, quando ha lasciato il posto in banca per dedicarsi all’arte, sua madre ha pianto?«Ha pianto per giorni. Aveva il cuore spezzato. Diceva: oh mio Dio, adesso che cosa le succederà? Mia madre è una donna molto ambiziosa e, siccome per due anni mi sono dedicata ai servizi sociali, mi ripeteva di tornare in banca, che dovevo avere successo, avere un sacco di soldi. Ma io non ne volevo sapere: lavoravo nel sociale, ho cominciato a scrivere, a dedicarmi alle arti, e mia madre era inconsolabile».
Ora lei è arrivata alla direzione della Biennale, che dice sua madre?«Non lo sa (ride, ndr)»
Come non lo sa?!«Né lei né i miei figli. O meglio, non lo hanno saputo fino a poco fa, finché la notizia non è stata ufficiale. Ma aspetti perché, tornando a quando ero ragazza, poi ho anche deciso di tornare in Africa, e mia madre non ci poteva credere, era disperata. Solo negli ultimi dieci anni ha iniziato a comprendere che sono molto seria nella scrittura e nel curare arte. Adesso mi rispetta professionalmente».
Quando lei è tornata in Africa, aveva un figlio più due adottati. È fuggita dal razzismo?«Il mondo occidentale è così. La discriminazione e il razzismo in Europa contro i neri sono evidenti, ovvi, ovunque. Ed è vero che nei primi anni Novanta sono diventata madre di un bambino nero e ho sentito che non avrei potuto crescerlo in Europa occidentale, circondato da tutte quelle sfide sociali. Volevo che crescesse in Africa, in un contesto in cui non avrebbe dovuto mettersi in discussione. Però sono tornata in Africa soprattutto perché ero stata portata via da un contesto culturale senza il mio consenso, e troppo presto: avevo ancora molta curiosità per la storia nera, per la vita e le realtà africane».
Ha sentito razzismo su di sé?«È una domanda difficile perché non voglio dire di no, ma la mia esperienza personale non è necessariamente rappresentativa dell’esperienza degli stranieri nell’Europa occidentale. Limitare a me la questione non dà il quadro globale. Non voglio concentrare la conversazione su razzismo o non razzismo, ma su dove ti senti più a tuo agio e dove pensi di esserlo anche nella società. Ho lasciato l’Europa perché penso che l’Europa, e l’Occidente in generale, sia una società satura. Tutto è stato fatto, tutto è stato esplorato, tutto è saturo di tutto. Non è facile da spiegare ma c’è un livello di saturazione nelle società europee che, per fare la differenza, si pensa di dover aumentare la saturazione. Soprattutto la saturazione, non il razzismo, mi ha portato via dall’Europa. Volevo dare il mio contributo in Africa, dove niente è così saturo».
E perché in Senegal? Lei ha studiato sufismo. È andata in Senegal per il sufismo?«Non ho studiato la cultura sufi come all’università. Ho studiato la vita, le persone, come adesso: è la prima volta che ci parliamo, ma la sua voce, i suoi occhi, il suo sorriso mi dicono molto di chi lei è. No, sono andata in Senegal perché ero curiosa del Senegal. È uno dei Paesi più poetici del continente africano. Io sono una vera panafricanista, credo che tutto il continente mi appartenga e io appartengo a tutto il continente, e quindi tornare in Camerun sarebbe stato ridondante. Volevo comprendere l’Africa occidentale, mi interessava vivere in una società prevalentemente musulmana di cultura sufi. Ma era una curiosità umanistica: non sono religiosa, né cristiana né musulmana né ebrea».
Certamente, il sufismo come filosofia.«Esattamente, è così. E poi Dakar è una città vibrante, ha una dimensione artistica e culturale molto forte, ha una Biennale. Ed è sull’oceano, lo sa? Volevo vivere in riva all’oceano, perché mi dà l’idea del movimento eterno».
Per venire a Venezia deve lasciare Cape Town, il museo dove ha fatto grandi cose era in crisi e ora è un fermento. Non le dispiace?«Come dicevamo all’inizio, la vita è movimento, è migrazione. Il mondo è la piattaforma. Cape Town o Venezia, l’importante è che l’arte continuai a essere l’estensione delle nostre vite. Che tu sia un artista o no, non importa per sapere che l’arte è estensione della vita. Qualcuno di noi è fortunato, ha una vita tranquilla, ricca, lunga, ma non è mai abbastanza. Ecco perché esiste l’arte. Perché esiste un destino comune».
L’arte come connessione.«Ho detto cose molto generali, come l’essere connessi, avere bisogno l’uno dell’altro, e la gente lo ripete in continuazione senza pensarlo davvero e senza capire di che cosa si tratta. Ma per me è molto importante far capire che non è un’idea stupida, ingenua o poetica. Penso che davvero abbiamo esaurito tutti i possibili modelli di convivenza, e siamo entrati in un’epoca in cui dobbiamo mettere in discussione questi modelli: il capitalismo, intendo il capitalismo grezzo, e poi le oligarchie, il complesso razzista globale, la violenza di genere, il sessismo. E penso che l’umanità si sia spesa per secoli in modelli che hanno portato a crescita tecnologica ed economica ma, su scala umana, ci stanno distruggendo. Poi, soprattutto il Covid, ci ha imposto di fermarci, di dire: ehi, un momento. Questo mi interessa davvero e questo interessa molti artisti. L’arte ci aiuterà a pensare le soluzioni alternative, in cui davvero saremo connessi, davvero avremo bisogno uno dell’altro, in un tempo e in un luogo in cui tutti saremo nella uguale e giusta considerazione».