il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2024
Biden, i retroscena della grazia al figlio
Tutto è perdonato. Da buon padre di famiglia. Peccato che il padre sia il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e il graziato sia suo figlio, Hunter. Peggio di Gerald Ford, entrato alla Casa Bianca nel 1974 in seguito alle dimissioni di Richard Nixon per il caso Watergate e da quello graziato un mese dopo. Una vergogna che ieri è impallidita di fronte a quella commessa da Biden il quale ha avallato di fatto ogni scelta che d’ora in poi compierà Donald Trump. Non è un caso che il presidente eletto abbia ieri sfidato il presidente uscente a graziare “quelli di Capitol Hill”, il processo che più gli sta a cuore, da cui è stato recentemente escluso, ma nel quale figura una rappresentanza, sia pure pittoresca, della sua base sociale.
Il rapporto Cmw. La vicenda di Hunter Biden si trascina ormai da quattro anni e il suo epilogo avrebbe potuto essere la galera. Lo si ricava anche da un rapporto, non molto conosciuto in Italia, del Comitato Way and Means (Cmw) organismo governativo tra i più antichi degli Stati Uniti, che nel maggio scorso ha rinviato al Dipartimento di Giustizia Biden per le “bugie” di fronte al Congresso nell’audizione del 28 febbraio 2024. Secondo il rapporto del presidente del Cmw, Jason Smith, lo scorso maggio, “Hunter Biden ha dimostrato ancora una volta di credere che ci siano due sistemi di giustizia in questo paese uno per la sua famiglia e uno per tutti gli altri”. Inoltre, “le bugie di Hunter Biden sotto giuramento e l’ostruzione di un’indagine del Congresso sulla potenziale corruzione della sua famiglia, mettono in discussione altri elementi della sua testimonianza”. Da quella indagine, come vedremo fra poco, emerge il ruolo del padre, Joe, nei rapporti con la Cina, la natura dei rapporti con l’Ucraina oltre che la distinta esatta dei pagamenti ricevuti da Hunter e non dichiarati al fisco.
L’affaire Biden nasce a ottobre del 2020 quando il New York Post pubblica la storia del laptop abbandonato in una officina di riparazioni del Delaware. Il computer contiene foto compromettenti, molte a sfondo sessuali o di Hunter sotto effetto di droghe, oltre a materiale che comprova contatti compromettenti con l’estero, in particolare con società ucraine e cinesi. Dalla ricostruzione si fa strada l’idea che Hunter tratti anche per un “grosso personaggio” di cui non fa il nome ma che potrebbe essere suo padre. La storia getta una luce opaca anche sul ruolo dei social media Facebook e Twitter (ancora di Jack Dorsey) che mettono la sordina all’inchiesta invocando la necessità di “fact-checking” che non verranno mai fatti. Facebook poi si scuserà ma in quel periodo anche il giornalista Glenn Greenwald, autore dello scoop su Edward Snowden, è costretto a lasciare The Intercept, da lui fondato, perché un suo articolo su Biden non viene pubblicato.
Hunter è accusato sostanzialmente di due reati: evasione fiscale accertata per 1,4 milioni di dollari di tasse federali e l’accusa di falsa dichiarazione nell’acquisto di un’arma dove non ha dichiarato di essere soggetto a droghe. Il patteggiamento del 2023, in cui ha ammesso reati minori in cambio di un alleggerimento sostanziale delle accuse, è saltato esponendolo al rischio concreto del carcere. Da qui la grazia di ieri.
Le tre bugie. Hunter ha esibito una testimonianza giurata davanti al Congresso lo scorso 28 febbraio, per la quale il Cwm gli contesta almeno tre bugie. La più “lampante” riguarda il famigerato messaggio WhatsApp in cui minacciava un socio in affari cinese menzionando suo padre: “Sono seduto qui con mio padre e vorremmo capire perché l’impegno non è stato rispettato”, scriveva Hunter Biden il 30 luglio 2017. Secondo la Commissione “il messaggio mostra che, come minimo, Hunter ha usato il nome di suo padre per estorcere denaro a un socio in affari cinese, Raymond Zhao, e ha funzionato”. Nella sua testimonianza giurata di febbraio, Hunter aveva affermato di essere stato “ubriaco e probabilmente fatto” quando ha inviato questo messaggio. E ha anche affermato che “lo Zhao a cui è stato inviato questo non è lo Zhao che era collegato al Cefc”, cioè la China Energy, da cui ha ottenuto i fondi finanziari. In realtà era proprio quel Zaho. Nel settembre 2019, il presidente Biden ha dichiarato: “Non ho mai parlato con mio figlio dei suoi affari all’estero”, eppure lo stesso presidente Biden, continua la Cwm, “è implicato nei messaggi”. Il testo integrale su Whatsapp è molto inquietante: “Sono seduto qui con mio padre e vorremmo capire perché l’impegno preso non è stato rispettato. Dì al direttore che vorrei risolvere la questione ora prima che sfugga di mano, e ora significa stasera… se ricevo una chiamata o un messaggio da chiunque sia coinvolto in questo, a parte te, Zhang o il presidente, mi assicurerò che tra l’uomo seduto accanto a me e ogni persona che conosce e la mia capacità di serbare rancore per sempre, tu ti pentirai di non aver seguito le mie istruzioni. Sono seduto qui in attesa della chiamata con mio padre”. La frase è indicativa di un modo di condurre gli affari. I funzionari del Fbi hanno impedito agli investigatori dell’Irs di procedere in questa indagine accedendo alle mail e ad altri messaggi Whatsapp.
Soldi e Porsche. Nella testimonianza giurata di Hunter Biden relativa agli affari in Ucraina si dice che né Rosemont Seneca Bohai (la società che riceve i fondi da Borisma, la company del gas ucraina), né i conti bancari associati, erano “sotto il mio controllo né a me affiliati”. L’inchiesta dell’Irs ha invece attestato non solo che Hunter Biden era il beneficiario effettivo di un conto bancario intestato a Rosemont Seneca Bohai, ma che esiste un documento firmato in cui afferma: “Io, Robert Hunter Biden, certifico con la presente di essere il segretario debitamente eletto, qualificato e facente funzione di Rosemont Seneca Bohai, Llc” al fine di stipulare un contratto per conto dell’entità con Porsche Financial Services.
Già, perché nella lista dei fondi esteri nascosti al fisco ci sono anche regalìe: dal 2014 al 2019, circa 17,3 milioni di dollari sono confluiti a Hunter Biden e ai suoi soci da Ucraina, Romania e Cina. Il suo reddito è stato stimato in 8,3 milioni di dollari, che include pagamenti esteri sotto forma di un grande diamante e una Porsche. E nei messaggi Whatapp ce n’è uno rivolto al concessionario di auto Jim Ursomarso in cui Hunter dice che ora che “la Porsche è di mia proprietà posso aspettare tutto il tempo necessario per Alpine”, la coupé sportiva extra-lusso. Gran parte del reddito proveniva da entità cinesi, ma l’Irs ha offerto una suddivisione più precisa: 100 mila dollari dalla Cefc; 664 mila da State Energy Hk da parte di Rob Walker, socio in affari di Hunter; 80 mila dollari da un diamante di grandi dimensioni; 142 mila dollari da una Porsche; 2,6 milioni, la cifra più rilevante, dai pagamenti netti totali provenienti da Burisma. E qui scatta la terza bugia contestata dal Cwm. Biden aveva dichiarato di non aver compiuto alcun atto per favorire il visto al Ceo di Burisma, Nikolay Zlochevsky: “Non avrei mai preso in mano il telefono e chiamato nessuno per un visto”. Il Comitato ha ottenuto e reso pubblica invece una comunicazione via e-mail tra Devon Archer, Hunter Biden e soci ucraini in cui, in risposta alle preoccupazioni sulla revoca del visto statunitense del Ceo di Burisma, e le conseguenti limitazioni ai suoi viaggi all’estero, Archer ha dichiarato: “Hunter sta verificando con Miguel Aleman se può fornire copertura a Kola sul visto”. “Kola” è Nikolay Zlochevsky. E proprio sull’Ucraina c’è stata la richiesta repubblicana di impeachment nei confronti di Biden il quale minacciò di congelare un miliardo di dollari di aiuti se l’Ucraina non avesse licenziato il procuratore generale Viktor Shokin, accusato di corruzione, ma in realtà attivo nelle indagini sulla Borisma. “Li guardai negli occhi e dissi, io parto tra sei ore, se il procuratore non è stato licenziato, non avrete i soldi. Beh, figlio di puttana. È stato licenziato”, ammise nel 2018 a un evento della rivista Foreign Affairs. La grazia potrebbe non essere solo un affare di famiglia.