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 2024  dicembre 02 Lunedì calendario

Dal Tfr miliardi ai fondi pensioni


La rapina a mano armata, per così dire, al momento non è prevista: nella manovra non entrerà l’obbligo di versare il 25% del Tfr alle forme di previdenza complementare proposto dal sottosegretario leghista al Lavoro Claudio Durigon. Con ogni probabilità, invece, troverà spazio il furto con destrezza dello stesso Tfr suggerito dalla ministra del Lavoro Marina Calderone: aprire dal 1° gennaio una nuova fase semestrale di silenzio-assenso, come accadde nel 2007 all’avvio della riforma della previdenza complementare.
Lo prevede un emendamento del presidente della commissione Lavoro di Montecitorio, Walter Rizzetto di FdI, che piace al ministero, alla Lega e risulta tra i “super segnalati”, cioè tra le poche decine che andranno al voto tra le migliaia di proposte presentate: in sostanza i lavoratori avranno sei mesi di tempo per esplicitare l’intenzione di tenere in azienda il loro Trattamento di fine rapporto, altrimenti saranno iscritti in uno dei fondi negoziali, quelli previsti dai contratti nazionali e gestiti da imprese e sindacati (che infatti, esclusi quelli di base, non sono poi così contrari). Insomma, si punta ai distratti, che non mancano mai.
A che serve un trucchetto così umiliante? La motivazione ufficiale dei proponenti è: a rafforzare il secondo pilastro previdenziale visto che i lavoratori più giovani avranno pensioni da fame. In realtà per i lavoratori affamati e “affamandi” cambia poco: il Tfr è salario differito, averlo in un modo o nell’altro è uguale. Tanto più che la cara vecchia liquidazione non ha affatto sfigurato dall’avvio della riforma a confronto coi rendimenti offerti dai fondi pensione e nel biennio della super-inflazione, essendo rivalutato per legge al 75%, ha protetto il risparmio dei lavoratori assai meglio della previdenza complementare, che ha visto rendimenti reali negativi anche a doppia cifra.
E ancora: i lavoratori trattano il loro monte previdenziale nei fondi come fosse il Tfr, non come un’integrazione alla pensione. Parola di Covip, il regolatore che vigila sul settore (e lo sponsorizza pure): nel 2023 le nuove prestazioni erogate dai 302 schemi di previdenza complementare italiani hanno riguardato 164.000 posizioni in tutto e la bellezza di 160.300 hanno scelto la “prestazione in capitale”. Tradotto: il 97,7% dei lavoratori (una percentuale stabile negli anni) ha ritirato tutti i soldi insieme, solo il 2,3% ha scelto la “rendita”, cioè l’assegno mensile (la percentuale sfiora il 100% nei fondi negoziali, quelli in cui vorrebbero far finire la liquidazione dei distratti del silenzio-assenso). Infine, una faccenduola che magari andrebbe tenuta da conto: se uno perde il lavoro il Tfr lo prende subito, quando serve, nei fondi previdenziali invece i soldi sono vincolati.
E allora a chi serve questo emendamento? In generale ai tradizionali sponsor della previdenza complementare, le cui commissioni il “cliente” paga anche se non se ne accorge: assicurazioni, banche, l’industria del risparmio gestito in generale, ma anche sindacati e associazioni datoriali coinvolti nei fondi negoziali. Il loro problema è che i lavoratori italiani non si sono mai fidati troppo delle promesse del 2007 e continuano in larga parte a non dare il Tfr alla previdenza complementare: “Dall’avvio della riforma – si legge nella relazione Covip – su 438 miliardi di Tfr, 241,9 miliardi (il 55,3% del totale) sono rimasti in azienda; 98,5 miliardi (il 22,5%) sono confluiti nel Fondo di Tesoreria (per le aziende sopra i 50 dipendenti, ndr), la parte destinata alla previdenza complementare è stata di 97,3 miliardi di euro, il 22,2%”. Quasi 100 miliardi sono una bella cifretta, ma adesso puntano a prendersi un pezzo degli altri 340.
Cosa significa sarà forse più chiaro usando i flussi di un solo anno. Nel 2023 in Italia sono maturati Trattamenti di fine rapporto per 31,3 miliardi di euro: 17,3 miliardi sono rimasti nelle aziende, 6,1 sono andati al Fondo di Tesoreria e 7,8 miliardi alla previdenza complementare (il 40% delle entrate totali dei fondi previdenziali, 19 miliardi l’anno scorso).
Un 15% di distratti, stima conservativa, sposterebbe oltre 4,5 miliardi ogni anno verso i 302 schemi previdenziali esistenti (33 fondi negoziali, 40 fondi pensione aperti, 68 piani individuali pensionistici di tipo assicurativo “nuovi” e 161 fondi pensione preesistenti alla riforma), che ad oggi contano 9,6 milioni di iscritti, solo 6,8 milioni dei quali però versano contributi (circa il 28% del totale degli attuali occupati). Il sistema ha anche un altro problema: “A partire dal 2015 – riporta Covip – le adesioni contrattuali hanno costituito il principale canale di entrata: la loro incidenza sul totale delle nuove adesioni è pari a circa tre quinti di quelle totali ai fondi negoziali. È tuttavia da osservare che la crescita delle adesioni non sempre si accompagna a versamenti continui nel tempo e di ammontare sufficiente ad accumulare posizioni previdenziali significative”.
Tradotto: i rinnovi dei contratti nazionali portano lavoratori nella previdenza complementare, ma senza devolvere il Tfr quelli – ostinati – versano poco o niente. Ecco a cosa serve l’emendamento alla manovra. La cosa bizzarra è che così facendo si finirà per togliere alle imprese, specie alle piccole e medie, una ragionevole fonte di finanziamento per arricchire un sistema che in Italia investe poco: su quasi 189 miliardi di impieghi dei nostri fondi di previdenza complementare solo il 19,4% è diretto a entità italiane. In soldi fa 36,6 miliardi di euro, 26,6 dei quali in titoli di Stato.