La Stampa, 2 dicembre 2024
Manghi: un distinguo tra malessere e rivolta
«Il governo sbaglia ad evitare il confronto con i sindacati, ma Landini è un politicante». Bruno Manghi, classe 1941, sociologo ed ex sindacalista Cisl, analizza alla luce della sua grande esperienza la situazione politica dopo lo sciopero generale.
Come valuta gli episodi di violenza avvenuti a Torino?
«È frequente che ai margini di un grande sciopero ordinato si ritrovino gruppi di vandali. Una volta si muovevano contro il sindacato, ricordo l’aggressione a Pierre Carniti durante un comizio in piazza Duomo a Milano. Ora ci sono dei singoli che provano a lasciare traccia di loro. I bravi organizzatori sanno come tenerli fuori dai comizi e dai cortei. Più difficile escluderli del tutto dalla coda o dai lati, ma è sempre stato così».
La frase del segretario della Cgil Landini sulla «rivolta sociale» può giustificare certi eccessi?
«È fuori luogo e sopra le righe, ma non può essere ritenuta in alcun modo uno stimolo alla violenza. Un dirigente di un grande sindacato non si presta a questo né può desiderarlo».
Da dove nasce la violenza secondo lei?
«È un fenomeno storico che si ripete. Nelle città dove cova il disagio è facile che alcuni si organizzino così. Nel caso dei No Tav si delineava una finalità precisa, che tra l’altro in parte condividevo, ma ora non vedo rivendicazioni particolari per cui mi sembrano soprattutto protagonismi».
I centri sociali che ruolo hanno in questo?
«Si tratta di dissidenze organizzate da decenni, che vanno contrastate nei fatti se compiono illegalità, ma tenendo presente che cercano lo scontro per esistere. Inoltre da amico di Giuseppe Pinelli mi fa orrore usare per loro la definizione di anarchia, fondamentalmente nobile, solo perché non possono dirsi comunisti, socialisti o di sinistra».
Lo sciopero generale era necessario?
«No, anche se ne ho visti tanti così, senza una trattativa precisa dietro. Lo sciopero è stato deciso contro la logica della finanziaria ed è servito soprattutto a rivendicare che i sindacati siano degli interlocutori, ma che si facesse o meno non cambiava molto».
Come mai la Cisl non ha aderito?
«Niente di male, il segretario Sbarra ha le sue ragioni. Complessivamente però la Cisl fa un piccolo errore: mentre da un lato c’è un’evidente politicizzazione della Cgil, non bisognerebbe rispondere con una contro-politicizzazione. La Cisl dovrebbe rimanere autonoma e prendere le distanze proponendo una sua trattativa».
Che sindacalista è Landini?
«È un politicante che dirige un sindacato. Non è Luciano Lama, ma un sindacalista con una vocazione politica annunciata ed evidente dal gioco facile perché l’opposizione è debole».
C’è molta differenza rispetto a un Cofferati?
«Sì, di formazione. Landini è legato alla base Fiom. Cofferati era meno categoriale e più federale, perché veniva dalla stagione partecipativa dei chimici. Poi aveva un competitore di grande forza come Sergio D’Antoni. In generale, sono rari i sindacalisti che hanno fortuna in politica: solo Franco Marini ce l’ha fatta veramente».
La Cgil è vittima di Landini?
«Diciamo che io agirei diversamente e anche nella sua segreteria ci sono figure notevoli di orientamento diverso. Chi parteggia con Landini pensa che sia utile alzare i toni col governo. Ma chi ha una visione sindacale di lungo periodo punta ad intavolare trattative sostanziali».
È anche vero che il governo non considera i sindacati, come mai?
«Meloni porta avanti un’astuta azione di estenuazione non accettando negoziati e spingendo i sindacati a scioperi senza scopi precisi, difficili da motivare ai lavoratori».
Il sindacato viene anche considerato meno rappresentativo?
«Questo lo dicono tutti i governi da sempre, ma non è una motivo per evitare il confronto, anche perché l’alternativa sono i gilet gialli».
Cosa pensa dello sciopero in Germania contro la Volkswagen?
«Colpisce perché si tratta di una mobilitazione senza precedenti. Se in Italia il sindacato ha fatto unitariamente tutto il possibile sull’automotive, in Germania dove pure è presente nel cda dell’azienda si trova a contrastare la chiusura di tre siti industriali, la riduzione degli stipendi dei dipendenti e l’indisponibilità dei manager alla rinuncia ai loro bonus».
Tornando in Italia, come valuta la manovra finanziaria?
«È una legge senza soldi, non particolarmente colpevole, ma non dichiarata con trasparenza come fece per esempio all’epoca Giuliano Amato. La verità è che pesa come sempre su lavoratori e pensionati».
Il taglio del cuneo fiscale è efficace o gli stipendi andrebbero alzati anche in altri modi?
«È una misura esistente che viene giustamente confermata, ma per contrastare una ventennale gelata salariale bisognerebbe rinnovare i contratti di lavoro e stimolare le aziende ad aumentare le retribuzioni».
Come valuta il governo nel complesso?
«Continua ad avere consenso, anche se non da me, dunque ha una prospettiva di stabilità e di conseguenza una marcia in più».
L’assenza di riforme strutturali potrebbe danneggiarlo?
«Dovrebbe essere così, ma Meloni è brava a rappresentarsi come stabile nonostante tutto quello che la circondi e che anzi ne esalta la figura. Il pregio è che ha grande energia, il difetto è che questa a volte si trasforma in arroganza».
La sua destra sociale mette in difficoltà la sinistra?
«Sì, perché il mondo del lavoro non la vive come nemica. È un’avversaria ostica per una sinistra incapace di costruire relazioni con i lavoratori, comprese le partite Iva».
Le opposizioni come dovrebbero muoversi?
«Da ultimo dei prodiani vorrei vedere un progetto chiaro per l’Italia. Schlein e Conte dovrebbero confrontarsi, dando spazio a personalità di livello e non solo ai seguaci».