La Stampa, 2 dicembre 2024
Trump e il boomerang dei dazi
Donald Trump non è mai stato uno che rispetta le convenzioni. La settimana scorsa, pertanto, quando ha minacciato Messico, Canada e Cina illustrando come sarà la sua politica commerciale dopo l’insediamento alla Casa Bianca del 20 gennaio, soltanto poche persone si sono meravigliate. Non è previsto che i presidenti eletti annuncino le loro scelte politiche in anticipo, ma Trump se ne frega di queste sottigliezze. Inspiegabilmente, però, il suo annuncio è risultato abbastanza rassicurante, forse più di quello che lui voleva che fosse.
Come è mai possibile che la minaccia di imporre dazi del 25 per cento su tutte le importazioni provenienti dai partner commerciali dell’America più grandi e vicini a partire dal primo giorno della sua Amministrazione risulti quasi rassicurante? Come può essere tranquillizzante la minaccia di imporre un ulteriore dieci per cento di dazi sulle importazioni dalla Cina? La risposta va cercata nell’apparente motivazione di queste minacce.
Il grande dibattito relativo all’amore dichiarato di Trump per i dazi – vocabolo che durante la sua campagna elettorale egli ha definito «la parola più bella di tutto il dizionario» – è se il presidente eletto considera i dazi sulle importazioni alla stregua di strumenti di politica economica e fiscale o come armi da usare per esercitare pressioni nelle contrattazioni. Se sono strumenti di politica economica e fiscale, i dazi saranno estremamente diffusi e avranno lunga vita. Se sono armi negoziali, saranno mirati contro specifici Paesi e potrebbero avere vita abbastanza corta.
Il motivo per cui le minacce agitate questa settimana sono risultate abbastanza tranquillizzanti è che rientrano nella seconda categoria, quella dei dazi concepiti come armi negoziali. Inoltre, gli obiettivi di queste armi minacciate sono così vaghi e poco plausibili che Messico, Canada e Cina non hanno difficoltà a reagirvi.
Le tre minacce in verità sono consistite nel tentativo di accusare i Paesi stranieri per un problema interno americano. Trump ha affermato che le intimidazioni contro Messico e Canada sono state studiate per esercitare pressioni su questi Paesi affinché fermino l’immigrazione illegale negli Stati Uniti lungo i loro confini, mentre la minaccia contro la Cina è stata pensata per esercitare pressioni affinché Pechino arresti la produzione e l’esportazione del fentanyl, il farmaco che in America ha provocato centomila morti l’anno per overdose.
Nessuno dei Paesi implicati può fare quello che gli viene richiesto. La Cina ha già predisposto controlli molto più severi sul fentanyl e sui suoi componenti ma, come nel caso di altre sostanze illecite, anch’esso può essere procurato in vario modo e da varie parti e arrestarne il traffico è estremamente complicato. Secondo il Financial Times, negli Stati Uniti l’anno scorso i decessi da abuso di fentanyl sono diminuiti in ogni caso del 20 per cento. L’immigrazione clandestina dal confine canadese è già trascurabile, e non è chiaro perché il Messico dovrebbe riuscire a pattugliare e controllare meglio degli Usa stessi il confine tra Stati Uniti e Messico.
Le richieste sono inconsistenti. È verosimile che Trump voglia semplicemente ricavare qualche piccola concessione da ciascuno di questi governi, così da poter dichiarare una sorta di vittoria da sbandierare all’inizio della sua Amministrazione per dimostrare quanto è potente e in che modo sotto la sua leadership l’America possa dominare gli altri Paesi.
La vera preoccupazione su Trump e i dazi non va individuata in questa forma di atteggiamento prepotente, né nell’uso che egli fa dei dazi contro specifici Paesi come la Cina. Le minacce come quelle che Trump ha proferito questa settimana sono gestibili, proprio come lo sono già state durante il suo primo mandato alla presidenza. Dazi elevati imposti a un Paese solo, seppur grande come la Cina, si limiteranno a dirottare gli scambi commerciali lungo altre strade, più che fermarli del tutto. Questo è quanto è accaduto quando Trump nel 2018 ha imposto dazi del 25 per cento sulle merci provenienti dalla Cina, e accadrebbe di nuovo se replicasse quella scelta politica.
La vera preoccupazione è legata alla possibilità che Trump voglia usare i dazi come un autentico strumento di politica economica e fiscale, nella convinzione che l’imposizione di dazi doganali elevati in America serva ad aumentarne le entrate fiscali, promuoverne la produzione manifatturiera interna e cancellare i deficit commerciali americani. In questo caso, si concretizzerebbe la promessa fatta in campagna elettorale di applicare dazi universali del 10 o del 20 per cento a tutte le importazioni da tutti i Paesi, a eccezione di quelli ai quali sarebbero imposti dazi ancora più elevati. No, questa non sarebbe una tattica negoziale concepita per prevaricare l’Europa e costringerla a spendere di più per la Difesa o per acquistare maggiori quantità di gas naturale liquido americano. Alla base di tale tattica ci sarebbe invece un concetto filosofico di deglobalizzazione profondamente radicato: ridurre i rapporti commerciali tra l’America e il resto del mondo nella convinzione che così facendo gli Stati Uniti diventerebbero più ricchi e più forti. Una simile politica pertanto verrebbe applicata con continuità quanto meno fino al termine del mandato di Trump nel 2028 e, in sostanza, renderebbe obsolete (o nel migliore dei casi sospenderebbe) le norme vigenti del sistema commerciale globale su cui vigila l’Organizzazione mondiale del commercio di Ginevra.
Al momento, non c’è modo di sapere se Trump ha intenzione di perseguire questa filosofia di deglobalizzazione. La nomina da parte sua a Segretario del Tesoro di Scott Bessent, un manager abbastanza tradizionale di fondi di investimento, implica che non si cimenterà in un cambiamento così radicale in politica economica. Nondimeno, le sue nomine per la posizione di Segretario del Commercio (Howard Lutnick, anch’egli finanziere) e di Rappresentante del Commercio Usa (Jamieson Greer, un avvocato) lasciano intuire che invece potrebbe volersi cimentare in tale cambiamento radicale, perché entrambi hanno dichiarato apertamente il loro forte sostegno a dazi più elevati e più estesi.
L’enorme difficoltà con cui si scontrerebbero Trump, Lutnick e Greer qualora volessero imporre dazi universali del 10 o del 20 per cento è data dal fatto che l’industria manifatturiera in America in linea generale dipende dalle importazioni per le forniture di componenti e materie prime. Di conseguenza, mentre alcune aziende manifatturiere potrebbero accogliere favorevolmente le tutele nei confronti della concorrenza estera, altre – tra cui il settore della Difesa – in seguito a esse vedrebbero impennarsi i loro costi di produzione. Sostituire le linee di approvvigionamento internazionali con filiere interne sarebbe caotico, laborioso, lungo, costoso e il più delle volte nemmeno realizzabile.
Il meglio che si può sperare è che ogni proposta di imporre dazi universali sia accolta da uno tsunami di pressioni per specifiche esenzioni, sufficiente a ritardare l’applicazione di tale politica o, chissà, a screditarla del tutto. Tutte le minacce agitate questa settimana a proposito dei dazi riguardavano trattative con governi esteri. Un sistema di dazi elevati comporterebbe una grande quantità di contrattazioni anche con le aziende americane, comprese perfino quelle del presunto miglior amico di Trump, Elon Musk, le cui società di produzione di veicoli elettrici Tesla, di satelliti Starlink e di lanciarazzi SpaceX dipendono completamente dai mercati e dalle filiere globali.
Le contrattazioni con gli stranieri potrebbero rivelarsi molto più facili delle contrattazioni con gli americani.