Domenicale, 1 dicembre 2024
L’informazione che fa la storia
La dinastia cinese Qin, nel 221 a.C., impose ai sudditi un ordine sociale militarizzato: a ciascuno era attribuito un grado e la sua obbedienza veniva premiata con privilegi, mentre disubbidire significava retrocedere. Era un esperimento totalitario inedito nella storia antica. Ma fallì. Per stare in piedi aveva bisogno di un flusso continuo di informazioni dalle periferie al centro: con le tecnologie dell’epoca era un’utopia. Senza una diffusione rapida e un controllo capillare dei dati il totalitarismo è irrealizzabile. Ma è vero anche il contrario: la diffusione di informazioni ha consentito pure l’affermarsi della democrazia moderna, dalla rivoluzione americana in poi, grazie a un dibattito pubblico su larga scala – reso possibile dai media – che ha superato i limiti dei primi esperimenti democratici dell’antichità, quando le parole di retori e legislatori difficilmente superavano i confini fisici dell’agorà.
Questa ambivalenza radicale dell’informazione è uno dei fili da acciuffare per orientarsi nel nuovo saggio di Yuval Noah Harari, lo storico israeliano che dopo il successo mondiale di Sapiens (25 milioni di copie di un testo che era nato come dispensa universitaria) e dei bestseller successivi, offre al suo pubblico un altro ardito “libro-mondo”: Nexus. Breve storia delle reti d’informazione dall’età della pietra all’Ia. Fedele al sottotitolo, Harari accompagna il lettore in un viaggio nello spazio e nel tempo che è impossibile riassumere. Leggere Nexus è come visitare una galleria di aneddoti che dà le vertigini accostando civiltà e discipline diverse (storia di ogni epoca, filosofia, economia, sociologia dei media, politologia, internet studies…) con passaggi fulminei, analogie sorprendenti, sintesi che seducono anche se spesso fanno storcere il naso agli specialisti.
Dalla campagna elettorale che era in corso a Pompei il giorno dell’eruzione del Vesuvio (a riprova che i romani «conoscevano la democrazia»…) alla persecuzione dei kulaki ai tempi di Stalin, dai messaggi di odio su Facebook che hanno favorito la pulizia etnica dei rohingya in Myanmar fino ai rischi che corriamo oggi cedendo i nostri dati alle piattaforme di sharing, tutto nella storia dipende dalla circolazione delle informazioni. Che di per sé, assicura Harari, non significa affatto aumento della conoscenza. Solo una «visione ingenua dell’informazione» fatica a capire che essa non nasce, sin dai primi graffiti dei sapiens, con l’intento di rispecchiare fedelmente la realtà bensì per connettere, per agire appunto come nexus tra gli umani favorendone la cooperazione. La quale, a sua volta, non è di per sé una bella cosa. Capita anzi che produca effetti devastanti: l’invenzione della stampa, ben prima di propagandare la rivoluzione copernicana o le tesi di Galileo, consentì nel 1487 la pubblicazione del famigerato bestseller Malleus malleficarum (Il martello delle malefiche) e la conseguente esplosione di quella conspiracy theory – la caccia alle streghe – che sterminò migliaia di donne innocenti.
Tutto dipende da come gli umani si connettono, se basandosi sul trasferimento centripeto delle informazioni a un potere “infallibile” oppure, al contrario, su una rete plurale e multidirezionale che prevede meccanismi interni di autocorrezione (il metodo scientifico di revisione peer to peer, la separazione dei poteri di Montesquieu, le procedure di revisione costituzionale): il nexus, insomma, ci può rendere liberi o schiavi. C’è da dire che l’intuizione di Harari non è una novità: nel Fedro di Platone Socrate ci stupisce affermando che la Chimera e le altre finzioni mitologiche sono “vere”, e lo dice non perché rappresentino in qualche modo la realtà esterna bensì in quanto, al pari di Eros, connettono gli uomini. «Tutti i sistemi politici umani – scrive Harari – sono basati su finzioni, ma alcuni lo ammettono, altri no». L’esperienza dei messaggi populisti via Facebook che, nelle elezioni americane del 2016, cementarono “comunità della rabbia” in grado di orientare il voto, ci obbliga a capire che questa è la sfida del secolo. Ma anche a capire che – Harari tende invece a ricondurre ogni fenomeno alla sua chiave di lettura – non tutto dipende dalle tecnologie dell’informazione: la frustrazione dei left behind non deriva solo dalle reti digitali che la incanalano e la strumentalizzano ma anche, e direi soprattutto, dalle disuguaglianze economiche e sociali molto materiali, fatte di carne e lacrime e non di silicio, che le odierne democrazie liberali tollerano al proprio interno lasciandole crescere anno dopo anno (basti vedere l’andamento dei salari e della pressione fiscale in un Paese come l’Italia, ben descritto da Riccardo Staglianò nel suo Hanno vinto i ricchi, da poco uscito per Einaudi).
Comprensibile il timore di Harari che la rete informatica possa «distruggere la civiltà umana», ma non solo per i rischi tecnologici da lui indicati: ancor più paura a me fa la concentrazione di potere nelle mani di pochi “gigacapitalisti”, che non sembra affatto una distorsione dell’odierna democrazia liberale di mercato bensì, al contrario, un suo esito naturale. Harari, invece, appare più duro con l’Ia, nuovo volto del nexus, che con il sistema economico che l’ha generata.
Ciò detto, il punto di forza del libro è che offre una cornice di pensiero unitaria per leggere la complessità del mondo (forse solo così, oggi, si possono intercettare milioni di lettori) senza cadere in una scorciatoia populistica. Cercare connessioni tra i campi del sapere, oggi incapaci di comunicare per il loro stesso progredire iperspecialistico, può essere talvolta foriero di semplificazioni, certo, ma resta una via preziosa per provare a scorgere l’orizzonte oltre questo mare in tempesta.