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 2024  dicembre 01 Domenica calendario

La diversa realtà delle foto di Luigi GHirri


Luigi Ghirri raccoglieva cartoline. Non erano le classiche cartoline di celebrate città italiane con i loro monumenti, ma ritratti dell’incipiente modernità italiana. A un certo punto, tra il 1960 e il 1970, contagiati dal potere delle immagini anche i piccoli centri, paesi e città, avevano cominciato a produrre fotografie di sé: la zona industriale di Campogalliano (Modena); via Roma nel medesimo paese; il ristorante “Al Doro” (Ferrara); il Lido delle Nazioni (Ferrare); il Grattacielo di Ferrara; il Ponte Nuovo a Guastalla (Reggio Emilia); il centro di Mirandola (Modena); la Galleria Cavour a Reggio Emilia. Sono cartoline che potrebbero ricordare le Boring Postcards di Martin Parr, che certamente Ghirri non conosceva. In Parr sono manifestazioni del kitsch inglese, che domina una parte consistente della sua opera, mentre nel fotografo emiliano sono sguardi inconsueti sulla realtà, una diversità che aiuta a comprendere meglio l’opera di Ghirri.
L’importante mostra «Viaggi», al MASI di Lugano, per la cura di James Ligwood e il coordinamento progettuale di Ludovica Introini (catalogo Mack), illumina in modo specifico gli inizi del lavoro del fotografo italiano, non proprio i primissimi con il gruppo degli artisti concettuali di Modena (Guerzoni, Cremaschi, Della Casa, Parmiggiani), ma quelli che hanno certificato la sua identità di fotografo tra il 1970 e il 1972, quando espone per la prima volta presso un piccolo circolo modenese i propri scatti. Vero che la maggior parte delle immagini vintage di piccolo formato in mostra nelle sale del MASI, sono successive al 1973, ma da quello che si vede, e da ciò che scrivono nel catalogo il curatore, Maria Antonella Pellizzari e Tobia Bezzola, sin dal suo esordio Ghirri ha molto chiaro cosa vuol fare con la macchina fotografica: guardare. Sia che punti l’obiettivo verso gli scaffali dei suoi libri e dischi, sia che esca per fotografare i manifesti pubblicitari intorno a casa, sia che fissi da distanza ravvicinata l’atlante geografico, Ghirri fa una sola cosa: guarda. In uno dei testi più espliciti raccolti in Niente di antico sotto il sole (Quodlibet) specifica come i soggetti delle sue fotografie «sono quelli di tutti i giorni, appartengono al nostro campo visivo abituale: sono immagini, insomma, di cui siamo abituati a fruire passivamente». La differenza con Martin Parr non sta nei soggetti che osserva e ritrae, anche lì naturalmente – esseri umani colti sempre di spalle in Ghirri –, ma nel modo in cui guarda. Ghirri ha capito, prima di tutto in forma istintiva, che il nostro paesaggio quotidiano non è più quello della città rinascimentale o ottocentesca; è piuttosto il mondo moderno e postmoderno scaturito dalla fine della società contadina, un mondo che merita attenzione anche se sta inghiottendo tutto il senso prodotto dalle società tradizionali.
A differenza di Pasolini, amante del mondo arcaico delle origini – mondo immaginario come mostrano i suoi film –, Ghirri dà per scontato che la “rovina di senso” è il nuovo soggetto da ritrarre.
Le cartoline popolari e anonime che raccoglie, spiega Bezzola, lo portano a guardare con desiderio al mondo intorno a lui, che è quello della postmodernità emiliana, una realtà fisica e mentale che attende ancora d’essere scandagliata. I concettuali di Modena, intrecciati con la post-avanguardia degli epigoni del Gruppo 63, gli insegnano a osservare il mondo con un atteggiamento poetico, per cui anche un distributore di benzina al tramonto o una spiaggia della riviera romagnola possono rivelare qualcosa d’inedito, contenere una grazia o un’illuminazione, come se si trattasse di un pezzo della Parigi di Baudelaire o della Dublino di Joyce.
Non si capisce la fotografia di Ghirri, come dimostrano questi bellissimi scatti, senza considerare che per lui le immagini dei luoghi contengono esperienze, forme di vita, per dirla con i filosofi della fenomenologia che lo interessano così tanto. Inoltre ha ben chiaro quando ritrae l’Italia in Miniatura che la fotografia è una rappresentazione. Meglio: la fotografia stessa è una rappresentazione della rappresentazione. Gioca con le immagini ricostruite delle montagne alpine, di Piazza San Pietro, del Pirellone di Milano, o di altri celebri luoghi in dimensioni lillippuziane, non per alterare la realtà ma piuttosto per arricchirla attraverso le immagini stesse. È ironico e delicato, è scherzoso e insieme acuto.
Gli interessa guardare e far guardare, e se possibile anche vedere, ovvero avere una concentrazione visiva frutto d’un gioco continuo di dimensioni e prospettive, di soggetti e oggetti. Allarga la sua e la nostra comprensione della realtà, che non è più solo quella che ci mostrava il neorealismo, per quanto si sia arricchita d’un livello in più proprio grazie a Paul Strand e a Cesare Zavattini. La mostra di Lugano, dedicata ai viaggi da fermo e in movimento di Luigi Ghirri, ci aiuta a comprendere che questo artista non è stato un poeta del Genius loci, neppure di quello della Pianura. Piuttosto è un poeta tout court, come gli aveva insegnato Roger Caillois, letto e chiosato alla fine dei 70: la realtà è qualcosa in cui il fantastico irrompe nell’ordinario. Le sue immagini vogliono mostrare lo straordinario proprio perché è diventato ordinario (Bezzola).
Le cartoline, che colleziona e lo ispirano, conciliano l’aspetto pittorico e quello concettuale, e proprio quest’ultimo resta operante anche quando volgerà lo sguardo verso la Pianura e i luoghi che prima di lui erano stati dimenticati o tralasciati – salvo forse il Po.
Fotografo della serialità, come mostrano le fotografie esposte a Lugano, Ghirri possiede un tocco magico: novello Creso rende poetico anche quello che in apparenza non lo è. Attinge dalla memoria del proprio passato senza diventare mai nostalgico. Prende ispirazione da un substrato vernacolare, senza però essere dialettale, facendogli assumere un rilievo generale come accade nelle canzoni del suo maestro Bob Dylan. La provincia emiliana diventa una cassapanca da cui trarre di volta in volta ciò che gli serve per affrontae il passaggio alla civiltà delle iper-immagini senza cadere, volontariamente o involontariamente, nel kitsch. C’è sempre qualcosa che ci stupisce nelle sue fotografie. Perché? L’ha spiegato lui stesso: ciò che conta non è «l’immagine-ricordo, ma il ricordo di un’immagine, di una percezione». Per questo guardare un suo scatto significa rivivere una sensazione, un’esperienza, a partire da quella che è misteriosamente inclusa in ogni suo riquadro di carta sensibile.