Specchio, 1 dicembre 2024
Anatomia di una strage di famiglia
Anatomia di una strage in famiglia. La morte violenta mai arriva all’improvviso, la tragedia non rompe una monotonia di grigi e blu e neri senza che i lampi schiariscano anche solo per un attimo le faglie dell’odio quando stanno per scontrarsi. Eppure, psichiatri, criminologi, investigatori tutti giurano che non sempre i campanelli d’allarme suonano a lutto, preannunciando il cataclisma, anzi. Spiegano come a volte l’omicidio in famiglia s’insinui come fantasma inatteso, il litigio degenera, una voce sconosciuta d’un tratto arma la mano e si ammazza d’impeto, senza che nessuno possa prevederlo.Strage in famiglia a Perugia: trovati morti padre, madre e figlia. Un fucile accanto al corpo dell’uomo, Filippo FioriniSiamo noi, noi genitori e figli, noi famiglie normali a ripeterci che questo non può essere vero, provando a ribaltare la tesi: i campanelli d’allarme strimpellano sempre, seppur pochi decibel ma vibrano le note della premonizione, dell’avvertimento. Quest’ultima è di certo una posizione rassicurante che esprime un invito sociale alla responsabilizzazione, a guardarci tra le mura domestiche e soprattutto ad ascoltare, anche i silenzi. Se i segni esistono, allora bisogna essere pronti a saperli intercettare e tradurre per evitare il peggio.
Giuseppina Di Bitonto non parlava quasi più, rapita dall’estraneità verso il tutto, svuotato il corpo di ogni sensazione, persa l’emozione di stupirsi e ricordare. Nata a Foggia, Giuseppina, 33 anni, aveva firmato il patto del matrimonio e della famiglia con il salernitano Luigi Rizzo, idraulico di 39 anni, nativo di Eboli.
Erano andati a vivere a Vieste, in provincia di Foggia. Una famiglia di artigiani, stenti e fatiche come tante, formata con la primogenita, cinque anni prima della tragedia, e poi, due anni dopo, il maschietto.
Vivevano tutti in un piccolo spartano appartamento al primo piano di un palazzo in località Defensola, due chilometri a nord di Vieste, sulla litoranea per Peschici. Un bel nucleo familiare, di certo, per la gioia del padre che contava su una bella famigliola che lo aspettava a casa. Ma queste descrizioni vanno bene per gli epitaffi patriarcali più che per la realtà, che era sempre più scollata e lontana. Giuseppina coltivava una percezione ormai sfuocata della vita e, soprattutto, nessuno l’aiutava a superare quell’ostacolo via via più insormontabile. Quando qualche vicino si era fatto avanti, andando persino in caserma a segnalare la parabola della mamma, non era stato né capito né preso in parola.
Così Di Bitonto appassisce giorno dopo giorno, si estranea con la fatica per ogni gesto da compiere nella quotidianità, alza la voce con i figli e a lei pesa tutto, persino alzarsi dal letto. Di fatto, si suicida dopo aver soffocato con del nastro adesivo entrambi i bimbi. Nessuna pietà, nessun peso gravitazionale di responsabilità. Niente di niente. Depressione grave diranno i medici, strage diranno gli inquirenti. Vieste è sconvolta.
Giuseppina affida a Luigi la scoperta della carneficina. Il marito torna a casa verso le 19, prova a inserire la chiave nella serratura d’ingresso ma non gira. La porta è chiusa dall’interno, da dove arrivano le voci della televisione accesa.
L’uomo chiama la moglie più volte ma nessuno apre, nessuno risponde. Allora si ingegna, con l’aiuto di un vicino recupera una scala che appoggia alla parete del palazzo, sale i pioli sino a una delle finestre di casa e si infila nell’appartamento. Trova i piccoli riversi sul divanetto dell’anticamera. A pochi metri, a terra, la moglie con il nastro stretto attorno al collo.
Luigi non vuole crederci, si china sul divano, raccoglie i bimbi e porta i corpicini fuori casa per correre al pronto soccorso. Non vuole accettare che i figli siano ormai deceduti, non riesce a credere, anzi rifiuta che la moglie abbia potuto compiere questa strage.
Ma tra i vicini c’è chi punta subito l’indice: «Questa è una tragedia annunciata – afferma uno di loro – io ho denunciato più volte quanto avveniva in quella casa ma nessuno ha fatto niente. Che io sappia dopo la mia denuncia e quella di altri vicini di casa, i carabinieri hanno parlato una volta con il marito, ma poi non si è fatto più nulla».
Per appendersi a un movente, a Vieste circola una storia di maltrattamenti, la donna avrebbe patito angherie e violenze. C’è anche chi racconta come in quella casa la vita fosse un inferno con un padre assente, una mamma ruvida, urla su urla, i bimbi che piangevano tutto il giorno. Ma si tratta di chiacchiere e cattiverie perché alla stazione dei carabinieri non risulta nessuna denuncia né i militari avevano raccolto segnalazioni di maltrattamenti in famiglia. Tanto che in quei giorni era intervenuto anche il comandante della Tenenza, Eliseo Mattia Virgillo: «Non c’è mai stato neppure un accenno a eventuali problemi all’interno della famiglia Rizzo per maltrattamenti. Se solo avessimo avuto sentore che qualcosa non andava, saremmo intervenuti subito ben sapendo che c’erano due bambini da tutelare. Sicuramente avrebbero fatto la stessa cosa i servizi sociali che qui a Vieste funzionano molto bene. Insomma, non abbiamo mai ricevuto denunce».
Il giorno del funerale, Vieste abbraccia questo giovane idraulico che all’improvviso si trova da solo, la famiglia sterminata, l’orizzonte chiuso. Le bare bianche, i fiori, la folla di sconosciuti venuti a esprimere solidarietà e sostenere questo papà. A officiare la cerimonia don Leonardo che nell’omelia punta a ricucire: «Il Signore – dice – ha già perdonato Giuseppina ora tocca a noi perdonarla». Ma più che perdonare, si tratta forse di capire le dinamiche della depressione nelle giovani mamme. Infatti, al di là del perdono e del comprendere come mai questa mamma sia rimasta sola con la sua malattia, rimane l’assenza dei segnali premonitori che, come detto, lascia ancor più spaesati.
E, invero, questo accade di rado tra le madri Medea autrici di oltre il 50 per cento degli omicidi di minori in Italia. Spesso si trova un movente che possa aiutare a decifrare quanto accaduto. La depressione post parto colpisce diverse giovani madri che si ritrovano inadeguate e prima di togliersi la vita uccidono i figli per non lasciarli soli al mondo. Queste mamme sono convinte di non saper crescere i propri piccoli e credono che senza di loro non sarebbero in grado di sopravvivere. Nell’ultimo quarto di secolo sono stati in tutto oltre 500 quelli ammazzati: dal 2000 al 2013 sono stati 340 i minori uccisi, mentre il 2014 conquista il primato più triste con 39 figlicidi, seguito dal 2018 con 33. Dati che però rischiano di lievitare nei prossimi anni con l’aumento delle denunce di violenza famiglia, segnalato da più organi giudiziari: crescono le denunce contro figli adulti accusati di picchiare i genitori, crescono i maltrattamenti, ai quali aggiungere tutte le violenze di genere.
«L’aggressività è in costante aumento – osserva lo psichiatra Massimo Picozzi – e si declina in moltissime forme: non solo in famiglia ma anche al pronto soccorso degli ospedali, sui treni, sui luoghi di lavoro». E a farne le spese sono soprattutto quelli che non si possono difendere, gli anziani e i più piccoli.