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 2024  dicembre 01 Domenica calendario

Vera Lutter fotografa ed esploratrice


Nelle fotografie che crea da quasi trent’anni, Vera Lutter c’è, ma non si vede. C’è, non solo in spirito, come tutti gli artisti, ma proprio col corpo, è letteralmente dentro le sue immagini. Le ha abitate. Per spiegare: ha abitato la macchina con cui le ha realizzate. Lutter è forse l’unica fotografa al mondo ad avere vissuto, letteralmente, fisicamente, dentro le sue fotocamere. Grandi, enormi, semplicissime fotocamere, scatole di legno o container di metallo con un piccolo foro su un fianco, e una distesa di carta fotosensibile sul fondo opposto. È lo schema più semplice di una macchina fotografica, è il principio della camera obscura, è il fenomeno ottico quasi magico che già Leonardo conosceva.Vera lo scoprì, come a tanti di noi è successo, per caso, in un sonnolento pomeriggio di rivelazione epifanica. Giovane tedesca nata fra le miniere della Ruhr, abitava in un appartamento ai piani alti di un edificio nel Garment District di Manhattan, dove, aspirante ceramista, studiava alla School of Visual Arts. Un sonnellino pomeridiano, a finestre chiuse, un raggio che entra da una fessura, ed ecco, il modo appare sulla parete, perfetto come in un film, ma a testa in giù. «Questa cosa deve diventare qualcosa», corse a comprare grandi fogli di carta fotografia e li appese al muro. Quando li sviluppò, vide il mondo come non l’aveva mai visto.Tre decenni dopo, questa procedura è la spina dorsale di tutto il suo lavoro. Venti grandi opere lo raccontano adesso al Mast di Bologna (fino al 6 gennaio), in una mostra curata da Francesco Zanot, Spectacular,che scatena molte domande. Per fortuna, Lutter è generosa nel rispondere. Sì, questi grandissimi fogli di carta fotografica, alti e lunghi diversi metri, sono stati dipinti direttamente sulla superficie sensibile dalla luce che filtrava dal forellino nella parete della grande scatola. Sì, per questo motivo appaiono in negativo, così funziona( va) la fotografia analogica. Sì, sono opere uniche, perché quella è carta opaca e non pellicola. Sì, è stato necessario costruire ogni volta una casa- scatola- fotocamera in modo che si adattasse al soggetto: che fossero grandi paesaggi industriali, oppure interni di edifici.E sì, Vera ogni volta stava lì, dentro la scatola. Per tutto il tempo che serviva. A volte, ore e perfino giorni.In un caso, anche mesi (ma allora si concedeva evasioni programmate). «Ero lì, reclusa volontaria nello strumento della mia visione. Obbligata a restare lì mentre la luce lentamente impressionava la carta con il riflesso del mondo esterno». Sulla parete, rovesciate, vedeva muoversi le persone, il traffico di fuori. Sapeva che quel movimento era troppo veloce lasciare una traccia sulla lenta emulsione del supporto: come accadde per i primi pigri dagherrotipi, dove le città apparivano spettralmente vuote e desolate.Reclusa nella pancia della balena meccanica, il tempo per Vera cambiava valore. «A volte fuori c’era un bel sole, vedevo riflessa gente a passeggio, avrei voluto uscire e divertirmi come tutti loro, ma se avessi aperto la porta avrei distrutto l’immagine». Non restava altro che sedersi e aspettare che l’immagine latente si depositasse come pulviscolo solare sulla carta. Oppure muoversi ma con cautela, per non scuotere la macchina e sfocare il risultato. E agire. Bagnare il proprio corpo nel flusso dei fotoni in viaggio dall’imbuto del foro stenopeico alla superficie della carta: schermare col corpo, che sarebbe rimasto invisibile, quel torrente che anneriva i sali d’argento, modificarne il corso per schiarire o scurire questa o quella zona, come del resto hanno sempre fatto, con le mani o con piccole forme di cartoncino, i fotografi da camera oscura. «Ma loro agivano intervenendo tra il negativo e la carta: io prima, fra il mondo reale e l’immagine che ancora non esisteva».L’interno della macchina fotografica è sempre stato un luogo inaccessibile per il fotografo, almeno quando la macchina è in funzione. Inaccessibile anche concettualmente: in quella black box accade qualcosa, l’incontro sublime fra la luce e la pellicola, che una volta dati gli input, tempi e aperture di diaframma, è un mistero escluso dal suo controllo. Ed ecco, una giovane artista viola il sancta sanctorum del fotografico. «Quella segregazione per me è stata in realtà come abitare in due mondi contemporaneamente: quello delle cose come sono e quello delle cose come non sono, ma sembrano, nelle immagini». Il bianco che diventa nero, la destra che diventa sinistra, sono immagini irreali: e invece, osservandole bene, cominci a perdere la percezione del confine tra negativo e positivo. Come nella caverna di Platone ( che è in fondo la descrizione di una camera obscura), guardare i simulacri dei simulacri ci spinge a farci domande sull’origine della luce. Ci persuade che, per uscire dalla caverna, bisogna averci vissuto. Sulle orme di Virginia Woolf, Vera Lutter ha capito che, se vuole fare fotografie, una donna deve avere una stanza (obscura) tutta per se.