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 2024  dicembre 01 Domenica calendario

Tsitsi Dangarembga e il colonialismo che non muore


«Il colonialismo è ancora qui. E quella stessa Europa che ha creato problemi nel mondo intero non dovrebbe sorprendersi se ora questi problemi tornano indietro, manifestandosi anche a casa propria». Tsitsi Dangarembga, 65 anni, scrittrice dello Zimbabwe, regista e drammaturga, ha vissuto in Inghilterra e in Germania e ancora oggi, nonostante dal 2000 si sia stabilita ad Harare, è costretta a spostarsi altrove, all’estero, per potersi esprimere e lavorare. Lei stessa, che nel 2020 fu arrestata nella capitale del suo Paese per avere partecipato a una manifestazione pacifica anti-corruzione, dice di essere dovuta diventare una «lavoratrice intellettuale itinerante». Una posizione per cui non ci si può riconoscere fino in fondo da nessuna parte, ma che l’ha portata a riflettere sul «sistema operativo» del mondo nel suo complesso, in una prospettiva di lungo corso e di lungo termine: «L’attuale struttura globale – dice a “la Lettura” – è scaturita dal progetto europeo di modernità avviato mezzo millennio fa ed è dominata da un capitalismo predatorio i cui effetti si stanno riversando anche nei Paesi degli ex imperi». Quasi escludendo dall’analisi il contrasto Oriente-Occidente, la sua idea è che esista principalmente una contrapposizione tra il Nord «degli europei e dei loro discendenti» e il Sud del mondo, determinata da logiche economiche e commerciali.
«Serve un nuovo Illuminismo, un nuovo modello di pensiero», aveva spiegato nel 2021 ricevendo a Francoforte il prestigioso Premio per la Pace degli editori tedeschi. E lo conferma al nostro supplemento, con cui parla in occasione della ripubblicazione in italiano per Pidgin, in una nuova traduzione, del suo romanzo semiautobiografico Nevrosi (titolo originale, Nervous Conditions, 1988): un percorso nella viva carne delle discriminazioni razziali, di genere e di classe, e del loro intreccio, attraverso la storia di Tambu, che cresce povera sotto il giogo coloniale (quando lo Zimbabwe è ancora Rhodesia) e insegue il sogno dell’istruzione come possibilità di emanciparsi. Primo libro di una donna nera dello Zimbabwe in inglese, inserito nel 2018 dalla Bbc tra i cento titoli che hanno cambiato il mondo, Nevrosi è anche il volume che apre una trilogia proseguita con The Book of Not (2006) e This Mournable Body, finalista al Booker nel 2020 mentre l’autrice era sotto processo nel suo Paese. Dangarembga si collega via Zoom da Berlino, dove si trova per lavoro ed è arrivata dopo un tour negli Stati Uniti.
«Nevrosi» è un’espressione mutuata dall’introduzione di Jean-Paul Sartre a «I dannati della terra» di Frantz Fanon, nella quale l’intellettuale francese dice che «l’indigenato è una nevrosi immessa e mantenuta dal colono nei colonizzati».Tsitsi Dangarembga, perché sentì l’esigenza di scrivere il suo romanzo?
«L’indipendenza dello Zimbabwe arrivò nel 1980 e io lo scrissi poco dopo. La protagonista cresce negli anni Sessanta e Settanta perché volevo lasciare una sorta di istantanea di come fosse la vita prima. Non solo: all’epoca si sentiva molto parlare di uguaglianza e opportunità per tutti, ma io mi rendevo conto che il modo di pensare delle persone e la vita delle donne non sarebbero necessariamente cambiati. La nostra tradizione non era progressista. Quando dico tradizione intendo in questo caso sia quella patriarcale precoloniale sia quella patriarcale e capitalista venuta dagli europei. La somma è stata peggiore delle due tradizioni prese singolarmente. La differenza è che nella società precoloniale non c’era la proprietà privata, quindi era impossibile considerare un altro essere umano un possesso. Ma l’esperienza coloniale è complessa da riassumere in poche parole, ecco un altro motivo per cui scrissi il romanzo».
Che cos’è cambiato da allora?
«Ovviamente il colonialismo è un’esperienza negativa. Un progetto economico che non si cura delle persone, nato in un’epoca in cui i regni europei erano diventati così corrotti e dissoluti, spesso vicini alla bancarotta, da andare a prelevare la ricchezza in altre parti del mondo. Ora ci troviamo in una situazione in cui quelle colonie non possono più essere politiche, ma sono ancora colonie economiche. Infatti, se si guardano i dati, il flusso netto di ricchezza va dal Sud al Nord del mondo. Ma non basta: il sistema capitalistico crede in un profitto infinito, chi possiede di più non è mai soddisfatto, così l’istinto predatorio si sta riversando anche verso la propria gente. Oggi nel mondo un piccolo gruppo spilla la ricchezza a tutti gli altri. Nel Nord le persone cominciano a chiedersi perché la vita stia diventando orribile. Molti pensano sia colpa degli immigrati, ma non è così. Accade perché quel progetto originario di “guadagno dagli altri”, sta tornando a casa. Si pensi alla gentrificazione: persone con molti soldi entrano in alcune aree e se ne impossessano, solo che agiscono nel proprio Paese e non in un altro. Di questo sistema globale fanno parte anche i governi corrotti nella mia parte di mondo».
In che maniera?
«Molti negoziati per l’indipendenza furono condotti con l’Europa e le condizioni non erano di libertà, ma di modifica di un contratto: non più coloniale, ma postcoloniale. Io la chiamo meta-colonizzazione. Il sistema non è realmente cambiato negli obiettivi ma solo nel modo in cui raggiungerli. Spesso ci si chiede perché i governi del Sud del mondo agiscano contro gli interessi dei loro stessi popoli. La risposta è che, consapevole di essere in questa struttura globale, chi è al potere cerca di mantenerlo. Anche gli aiuti allo sviluppo spesso servono a consolidare i contratti tra i governi».
Le élite africane potrebbero agire diversamente?
«I capitani d’industria sono nel Nord del mondo, in Europa o dove sono i suoi discendenti, in America, in Australia... L’economia è gerarchizzata, quindi c’è un limite all’azione. Certamente però le élite africane potrebbero fare più di quanto stiano facendo per il benessere dei loro popoli. Un altro problema è che sentiamo una sorta di paura esistenziale. Se sei cresciuto come colonizzato, hai sempre timore di non avere abbastanza, di tornare in quella condizione. Abbiamo un’eredità psicologica di trauma che può essere trasmessa per generazioni. Il che non è una scusa. I governi hanno la responsabilità morale di intraprendere una strada migliore, ma posso capire la difficoltà».
Ora sono Cina e Russia a espandere l’influenza in Africa.
«Anche questi Paesi agiscono all’interno del paradigma capitalista del mondo, quindi anche il loro obiettivo è trarre profitto dal continente. Mi colpisce che alcuni governi africani sembrino non poter fare a meno di un padrone coloniale, e questo mostra forse una certa mancanza di maturità. Vorrei vedere il mio governo promuovere la sovranità del popolo e sostenere un contratto sociale con la sua gente. Invece o è indebitato con un padrone o lo sostituisce con un altro».
Nel 2020 fu arrestata nel suo Paese. Che situazione vive oggi ad Harare?
«Quando fui arrestata, il governo aveva vietato quel raduno ma la Costituzione dello Zimbabwe garantisce il diritto di manifestare. Sentii di sostenere i miei diritti e di non lasciare che mi venissero portati via. Andai. Rimasi in prigione una notte ma poi fui giudicata colpevole e condannata a sei mesi di carcere, con la pena sospesa per cinque anni. Iniziò una fase in cui era meglio stare fuori il più possibile dal Paese, altrimenti sarebbe stato facile finire in prigione. “Controlliamo tutto”, disse nel 2018 il presidente (Emmerson Mnangagwa, ndr) quando fu eletto, e in effetti, se non hai nessuno al vertice che ti protegge, è molto difficile. Così mi sono spostata molto per esercitare la mia attività intellettuale e guadagnarmi da vivere. L’anno scorso l’alta corte mi ha assolto e ora spero di trovare un modo diverso di andare avanti. Dirigo anche una ong, un’organizzazione artistica a sostegno delle donne, ma molte realtà simili stanno chiudendo».
Si parla molto del ritorno della guerra in Europa e del Medio Oriente in fiamme. I conflitti africani, invece, sembrano quasi sempre dimenticati.
«Non mi sorprende, è un vantaggio per l’Europa che ci siano caos, disordine e morte perché così il continente è più facile da sfruttare. E lo stesso vale per la seconda ondata di colonizzatori russi e cinesi. Nè credo cambierà nulla per l’Africa con la presidenza di Donald Trump. Ovviamente esistono oggi persone in Europa – dove la storia coloniale è più lunga, così che si è formato un pensiero critico – che la vedono diversamente, ma il loro impegno non riesce a incidere nella traiettoria del mondo».
Ricevendo il Premio per la Pace disse che c’è bisogno di un «Nuovo illuminismo», di un pensiero meno concentrato sull’«io» e più sul «noi», che non si basi solo sulla razionalità ma anche sull’esperienza. E nel saggio «Black and Female» (2022) scrive: «Se la logica dell’Illuminismo era il razzismo, la schiavitù, il genocidio e la colonizzazione, la decolonizzazione è l’unica logica che offre speranza (...). Il percorso delle generazioni attuali e future dipende da questo sradicamento».
«Il modo in cui il mondo si presenta oggi è il risultato del progetto europeo di modernità. L’Illuminismo, in particolare, creò un nuovo modello di pensiero: ci furono anche aspetti positivi ma a diventare prevalente fu il sistema predatorio capitalistico. Tutto questo però, il mercato ad esempio, non è qualcosa di naturale: è stato creato dagli esseri umani che quindi possono decidere se continuare o meno su questa strada. Io resto fiduciosa, soprattutto nei giovani. Pensiamo all’ambiente: i ragazzi si trovano ad affrontare sfide senza precedenti, inimmaginabili pochi anni fa. Un nuovo modello di pensiero sarà indispensabile. E se sempre più persone semplicemente guarderanno ai loro bambini, capiranno che qualcosa deve cambiare. Siamo noi stessi il potenziale di questa trasformazione».