il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2024
Gustavo Zagrebelsky e le riforme pericolose
La politica ci manda al manicomio – chi afferma la morte dell’autonomia, chi ne dichiara la certificata costituzionalità – e allora, come spesso accade, chiediamo lumi a Gustavo Zagrebelsky. Che, come prima cosa, ci dice: «A un certo punto dell’avanzata di Napoleone in Russia, in Guerra e Pace, Tolstoj commenta con un motto antico: Quos vult perdere dementat prius, A quelli che vuole mandare in rovina, (Dio) prima toglie il senno».
Professore, a cosa serve questo motto?
A ricordarci che il senno deve venire prima della politica. E invece no. Una ragazza qualunque diventata “la nipote” di Mubarak per voto parlamentare; quei “non luoghi” che sono i “centri di trattenimento” dei migranti in Albania, dove, se funzionassero, il diritto di fatto sarebbe sospeso; le Corti d’appello che, con un tratto di penna, sostituiscono i Tribunali che non piacciono; le ambiguità sui limiti dell’informazione nei processi che finiscono per proteggere solo le persone che contano; le pastoie, come le prescrizioni a valanga che stanno per abbattersi sui processi e i limiti ai mezzi d’indagine; la maternità surrogata “reato universale”, che pone i genitori che vi hanno fatto ricorso nell’insostenibile condizione di dover denunciare sé stessi nel momento in cui chiedessero di dare un’identità all’incolpevole bambino che, comunque concepito, non ha da essere abbandonato nel limbo del “non essere”. I nodi verranno al pettine anche se ora non li si vuol vedere.
Metterebbe in questo calderone di insensatezze anche l’autonomia differenziata?
Non io, ma la Corte costituzionale.
Ecco, appunto: cosa significa la sentenza della Consulta per la legge Calderoli? Sopravvive o no? Qualcuno al governo dice che è rimasta in piedi, l’opposizione che è stata svuotata. Hanno ragione entrambi. Gli uni parlano del contenitore, gli altri del contenuto. Il contenitore è rimasto intatto, ma è una scatola vuota. Non c’è più nulla che possa funzionare. Dovrebbe essere riempita ex novo e, per questo, occorrerebbe una nuova legge: ricominciare da capo. Doveva contenere una bomba che avrebbe minato l’unità dello Stato e ora non contiene neppure più un petardo. L’autonomia differenziata, in astratto, non è in contrasto con la Costituzione (art. 116) ma lo è quella del legislatore “dementato”. La Corte indica sette ragioni di incostituzionalità e cinque “interpretazioni conformi” (cioè necessarie per adeguare alla Costituzione ciò che è scritto nella legge): in tutto dodici, per una legge di undici articoli! Sono solo esempi di cecità di chi non vuole rendersi conto della complessità delle cose e, per tirarsene fuori, si costruisce complicatissimi castelli in aria. Bisognerebbe leggere che cosa c’è scritto nella legge e chiedere a chi l’ha scritta di riassumere con parole proprie. “Tiriamo avanti comunque”, è il loro motto.
Quali sono le contestazioni più rilevanti, secondo lei?
La Corte afferma che l’allocazione delle funzioni legislative e amministrative tra diversi livelli territoriali non deve “corrispondere a un riparto di potere tra segmenti del sistema politico”. Linguaggio piuttosto ermetico per dire: no ai traffici di potere. Una riforma come quella non deve nascere da accordi tra partiti (i “segmenti”) dello stesso colore politico che governano e si scambiano favori dal centro alle periferie. Insomma, dovrebbe chiamare in causa la responsabilità nazionale, la responsabilità del Parlamento tutto intero. Il Parlamento non può essere umiliato, al momento dell’approvazione delle “intese” tra lo Stato e le Regioni, a esprimere un semplice sì o no, un prendere o lasciare, come la legge prevedeva.
E poi? Non basta questo?
Basterebbe, ma c’è altro. L’art. 116 della Costituzione permette alle regioni di chiedere “forme e condizioni particolari di autonomia”. Non consente trasferimenti, regione per regione, di “materie o àmbiti di materie”, come dice la legge. È molto diverso parlare di “materie” o di “forme e condizioni” di esercizio di competenze. Cosa altrettanto importante: la condizione è che esistano particolarità (territoriali, economiche, culturali, ecc.) delle regioni che richiedono più autonomia. Anche il mancato rispetto di queste condizioni sarebbe stato sufficiente ad affossare tutta insieme la riforma pensata, precisamente, per blocchi di materie e in assenza di ragioni obbiettive di differenziazione. Insomma, voracità fine a sé stessa invece di razionalità per il bene di tutti.
Ma quello che lei chiama il bene di tutti e la presidente del Consiglio chiamerebbe il bene della Nazione, non è garantito dai Lep?
Si tratta, nel burocratese imperante, dei Livelli essenziali di prestazione, necessari per assicurare un minimo di uguaglianza di diritti in tutto il territorio. Buona cosa, tanto più che per le funzioni “che costano” la riforma non dovrebbe diventare operativa se non dopo l’approvazione dei Lep relativi. Ma come definirli? Un’apposita Commissione tecnica, dopo averne persi vari pezzi per strada, di fronte all’impervia impresa s’è messa al lavoro, ma è difficile immaginarne gli esiti. La Corte lamenta che la legge non abbia formulato adeguati criteri e principi direttivi, come vuole la Costituzione. Lavoro improbo, se non impossibile. Nulla se ne sa ufficialmente, ma circolano i più fantasiosi parametri, come il più ingiusto di tutti, la “spesa storica”; o altri addirittura collegati al clima e all’orografia delle regioni. La dignità delle persone dipende da queste cose? E poi, come si fa a stabilire i costi prima che sia stata determinata analiticamente la massa di competenze trasferite alle regioni? Inoltre, gli “equilibri di bilancio” devono essere rispettati. Come si fa a osservare quel principio, se non spostando risorse dalle regioni ricche a quelle povere, cioè al Mezzogiorno? Saranno d’accordo le prime a sacrificarsi per le seconde? Al momento buono, succederà di tutto.
Se cadesse una delle riforme – autonomia, premierato, giustizia – che sono fondanti per ciascuna delle tre forze di maggioranza, cadrebbero anche le altre per il gioco dei veti? In sostanza cade il patto di governo?
Difficile da dirsi. Il “patto di potere” probabilmente è più forte del “patto di governo”. Le contraddizioni, probabilmente, porterebbero allo stallo, senza abbandono dei propositi, in modo che ci si possa accusare reciprocamente di ostruzionismo, sperando di trarne vantaggi elettorali. In più, c’è il referendum ancora possibile. Temuto dalla Lega e, forse, non sgradito a FI e FdI. Un brutto colpo al partito dell’autonomia differenziata non dispiacerebbe a chi si riprometta di ereditarne gli elettori.
Sulla possibilità di referendum i suoi colleghi costituzionalisti sono divisi. Lei che pensa?
Quando la legge nel frattempo cambia, si deve valutare se il cambiamento è sostanziale e se va nella direzione voluta dai promotori del referendum. Se non è così, la domanda di referendum si trasferisce sulla nuova legge. La verifica di queste due condizioni è attribuita alla Corte di cassazione. Che farà? I contenuti della legge, dopo la decisione della Corte costituzionale non sono più quelli originari, ma “la scatola” c’è sempre e, sebbene svuotata, è figlia dell’intento di differenziare le regioni. I cittadini possono legittimamente volersi esprimere proprio su questo intento. Oppure, potrebbe dirsi che il referendum è stato chiesto per opporsi precisamente a quei contenuti nella legge e non a qualunque legge in materia. Ragionando così, il referendum cadrebbe. I promotori potrebbero allora sollevare un conflitto di attribuzioni presso la Corte Costituzionale. Dal punto di vista politico non so a chi e che cosa converrebbe. Entrerebbero in gioco calcoli politici, magari non dichiarati: a quanti non interesserebbe uno scherzo alla Lega di Salvini? Ma, potrebbe andare a vuoto per mancato raggiungimento del quorum con effetto boomerang. Un ingorgo giuridico e politico, insomma.
Stanno discutendo anche del premierato forte: abbiamo già votato nel 2006 sulla riforma Berlusconi, nel 2016 sulla riforma Renzi. Quante volte ancora deve accadere perché i governanti si rassegnino?
Bella domanda. La Costituzione è una legge particolare e non bisogna stressarla: non si deve giocare troppo frequentemente con lei. Poi si vendica.
Questa leggina di pochi articoli sul premierato è il funerale del sistema parlamentare. Ma, come lei fa notare in Loro dicono, noi diciamo, l’esecutivo è già fortissimo, è già esecutivissimo… Viviamo in un “tempo esecutivo”. L’esecutivo domina la scena. Con la riforma del “premierato”, il Parlamento diventerebbe la coda del governo.
La coda serve per scodinzolare…
… o per dare “colpi di coda”. Ma, a pensare così, le Camere non dovrebbero essere elette contemporaneamente al premier e con un premio di maggioranza. L’insieme assicurerebbe un controllo ferreo sul parlamento. Non hanno voluto un sistema chiaro e schietto e hanno escogitato un pasticcio, cioè un parlamentarismo di sola facciata. I difensori della riforma dicono: non stiamo stravolgendo la Costituzione, stiamo toccandone pochi articoli. Ma i punti sono nevralgici e l’ordine viene sconvolto. Nel sistema parlamentare il governo nasce da accordi tra forze che si misurano in Parlamento. Con questa riforma si rovescia il paradigma: tutto gira attorno all’esecutivo da cui dipende l’appendice parlamentare. C’è ipocrisia quando si dice: però il Parlamento rimane. E ci mancherebbe altro!
Che cosa la preoccupa di più, professore?
Il primo timore è l’occupazione del potere e dei poteri: con la maggioranza drogata dal premio, il governo potrebbe facilmente eleggere i suoi giudici costituzionali, i suoi membri nel Consiglio superiore della magistratura e perfino “il suo” Presidente della Repubblica. La seconda cosa, forse la più importante, è la spaccatura del Paese in due. Ogni elezione diretta di un capo, leader, presidente che dir si voglia, ha questo effetto. Nel clima in cui viviamo, dove il confronto politico è uno scontro che non disdegna i toni e i mezzi più spregiudicati e violenti, come costituzionalisti dovremmo avvertire la necessità della prudenza.