Avvenire, 1 dicembre 2024
Yemen, la folla sostiene ancora Hamas
Dall’alto è tutto un altro vedere. I tecnici della televisione di Stato degli Houthi yemeniti, al-Masirah, lo sanno benissimo. L’unico drone ammesso per riprendere la manifestazione del venerdì è quello dell’organo di informazione della milizia, il loro. Il drone è abbastanza grande e si muove, per tutta la durata dell’evento (circa un’ora), dall’alto in basso, e poi in orizzontale, lungo la distesa, apparentemente senza fine, delle migliaia di persone in piazza. Agli altri giornalisti accreditati non è concessa questa variante tecnica molto scenografica: al massimo, si può richiedere di essere issati, tramite gru, su un montacarichi mobile che qui chiamano pomposamente “lift”. Anche a noi è stata concessa l’ascensione, ma non per protocollo, bensì per evitare di creare un precedente imbarazzante, che potrebbe scatenare critiche popolari e video non autorizzati su TikTok per il fatto di avere ammesso una donna a una manifestazione di “soli” seimila uomini. L’aggravante è il fatto che la donna sia giornalista e, paradossalmente, che appaia esattamente uguale alle donne yemenite.
Così, ci è dato percorrere la piazza solo prima e dopo l’evento, ma non durante la manifestazione in cui, in attesa del nostro turno sul “lift”, siamo state protette nello spazio tra il montacarichi e il gruppo elettrogeno, immediatamente alle spalle del palco. Sul camion, quattro ragazzini che dimostrano 15 anni guardano le spalle alle autorità che si avvicenderanno in pubblico, tenendo gli occhi bene aperti sull’ingresso Sud alla piazza. I quattro adolescenti giganteggiano sopra di noi. Si sforzano di apparire minacciosi e, di fatto, lo sono: ne distinguiamo solo gli occhi perché vestono passamontagna, elmetto e fucile automatico con visore. Appartengono all’unità speciale dei servizi militari delle Yemeni Armed Forces e quegli occhi senza rughe di espressione sono già vitrei e adulti. Nel riflesso del visore, nel raggio puntatore di quegli sguardi si perde ogni innocenza: il Nord Yemen è diventato il regno della paranoia e anche il più piccolo errore di distrazione dell’ultimo soldato verrà punito duramente, se qualsiasi oppositore potrà mettere a rischio la vita anche del funzionario meno rilevante di Ansarullah.
Quando arriva il nostro turno per l’ascensione, possiamo finalmente contemplare la marea umana dall’alto, dal “lift”, nella sua estensione lungo la superstrada al-Sabaneen, che di settimana è uno svincolo trafficato da e per il monte Attan e la strada che da Sanaa porta a nord e nord-ovest, verso Hodeida, ma che il venerdì diventa un tappeto di rivendicazioni di giustizia, punteggiato da cartelli bianchi, rossi e verdi con il simbolo del partito (la dicitura Muhammad, riferita al profeta dell’islam, è replicata in calligrafia stile Thuluth) e con il mantra dei miliziani – «Morte all’America; morte a Israele; siano maledetti gli ebrei; vittoria per l’Islam» – in bella vista. Dall’alto, è vero, è tutto un altro vedere: si distinguono, ben distese, tre bandiere affiancate: la bandiera yemenita e quella palestinese, a cui nell’ultimo mese si è aggiunta anche la bandiera libanese. Circa a metà viale, sono stati issati, a distanza parallela e scenografica, i ritratti dei leader di Hamas ed Hezbollah assassinati da Israele: Ismail Haniyeh, Yahia Sinwar, Hassan Nasrallah. Le pose sono sempre le stesse: il sorriso di Nasrallah è sempre placido; il sopracciglio di Sinwar costantemente alzato; la mano di Haniyeh plasticamente benedicente. Sono identiche a quelle che i sanaani hanno applicato sui lunotti delle loro auto e che i ragazzini mendicanti vendono per un yemeni rial ciascuno ai semafori. Le sticker sono di produzione cinese, ma tant’è: in questo mondo globale le ideologie sono solo un accidente sulla via del profitto a buon mercato.
La manifestazione inizia rumoreggiando, non senza un momento di preghiera: è già venerdì e tutti gli uomini presenti hanno già pranzato e sono andati ad osservare il venerdì in moschea. Ma non si può affrontare la politica senza richiedere una benedizione. Così, dagli schermi giganti a led a colori, issati sui lati opposti della piazza – che già riprendono il palco delle autorità, dopo avere mandato in onda supporter adulti e minorenni, con un conduttore in diretta streaming su al-Masirah che tasta il polso del consenso politico dei manifestanti – parte il nasheed, il canto religioso di battaglia di Ansarullah, che dal 2021 è stato imposto come preliminare a qualsiasi richiamo alla preghiera in ogni moschea della città, accompagnato da terrificanti immagini della milizia in battaglia, alternate ai documenti dei massacri dei cittadini palestinesi a Gaza e in Libano. La piazza si scalda di fronte ai crimini di guerra suggeriti dalle immagini, nonostante fosse già pronta a ridefinire il proprio indottrinamento.
Abbad Yahia Saleh ha venti anni ed è sostenitore convinto di Ansarullah, senza se e senza ma: «Siamo venuti qui per rispondere alla chiamata di ieri del nostro leader Abdul-Malik al-Houthi che continua ogni venerdì dall’operazione militare Flood al-Aqsa di Hamas: qui rinnoviamo il nostro sostegno alle forze che si oppongono all’aggressione contro i popoli oppressi in Palestina e Libano. E stavolta abbiamo un messaggio anche per gli Stati Uniti e la loro nuova Amministrazione: finché continueranno a sostenere il regime sionista, daremo loro filo da torcere. Chi sostiene che la nuova Amministrazione americana porterà la pace non ha capito nulla degli Stati Uniti. Quel che non cambia sarà la fede al nostro sforzo in sostegno dei fratelli palestinesi: se Israele non si fermerà, nemmeno noi ci fermeremo, anche a costo di dovere far zampillare il nostro sangue e ridurre i nostri corpi a pezzi». Abbad viene da Hajjah, una regione che ha dato parecchi miliziani alla causa: ha gli occhi chiari, la giacca, il vestito e lo scialle in tinta con l’azzurro grigio delle sue iridi e un Kalashnikov a spalla che qui è concesso solo a pochi eletti. Il palco delle manifestazioni del venerdì è protetto da una cintura di sette check-point con metal detector e solo i membri certificati del partito o delle forze speciali possono portare dentro le armi. Il motivo è presto detto e ce lo spiega il responsabile della sicurezza del sito, che chiede di rimanere anonimo: «Dopo gli assassini degli altri leader dell’Asse della resistenza, in Libano e Iran, abbiamo innalzato tutti i livelli di sicurezza: non sai mai da dove può arrivare la minaccia. Del resto, tra i leader dell’Asse della resistenza, ci manca solo un morto in Yemen». La paranoia attanaglia la dirigenza Houthi che cerca di non darlo a vedere: nei giorni successivi all’elezione di Donald Trump alla presidenza americana si sono avvicendati sul palco diversi ministri e alcuni si mostrano anche tra i manifestanti, come Daifullah al-Shami, ex ministro dell’Informazione, Sabri Mohammed, segretario dell’ufficio di Presidenza, Adel Rajih, membro dei partiti della Coalizione contro l’aggressione e sheikh Hatem al-Maqabi, membro del Consiglio per la coesione e la solidarietà delle Tribù del Nord. Tutti, però, fanno una comparsa per un tempo brevissimo, onde evitare i pericoli della sovraesposizione.
Ali al-Yafei, ministro della Cultura e del Turismo, ci tiene a chiarire il cambio di passo nel discorso del giovedì del leader Abdul-Malik: «Questa non è una marcia, è una incursione: significa che non è un’azione di mera propaganda ma una forma di rivendicazione militare che prelude l’azione. I mari intorno allo Yemen sono nostri e non sarà il cambio di un presidente americano a modificare la nostra azione di difesa verso l’arroganza di questa nazione». A dare conferma alla sua lectio improvvisata è la salita sul palco di Yahia Qasim Saree, il generale portavoce delle Yemeni Armed Forces che ha pianificato per mesi gli attacchi alle navi che solcano i mari dello Stretto di Baab al-Mandeb e che ha orchestrato nel novembre 2023 il fermo della nave Galaxy Leader e il rapimento dei 25 membri suo equipaggio.
Saree lo ribadisce con chiarezza, a chiusura della giornata dell’»incursione»: «Da oggi, non solo le navi israeliane sono considerate nemiche ma considereremo nemiche anche le navi della Coalizione a guida statunitense». Intorno a lui, in migliaia sono pronti a dare seguito con i fatti a quello che verrà e non ci sembra cederanno tanto facilmente. Qui, dall’alto, lo si capisce benissimo.
(1. Continua)