La Stampa, 1 dicembre 2024
Angelo Branduardi: il successo nei capelli
«Essendo la musica l’arte più astratta, è la più vicina all’assoluto. Lo ha detto Ennio Morricone, e ha perfettamente ragione». Lo dice, anzi lo scandisce, Angelo Branduardi, annuendo con forza il suo testone di riccioli bianchi, gli occhi sgranati come quando vuol sottolineare qualche ricordo che torna in superficie. «La musica è un mistero, come l’Assoluto. Ogni tanto mi sembra di riuscire ad afferrarne il senso, poi svanisce e ricominci a cercare».Negli Anni 70 Angelo Branduardi era quel ricercatore colto e sofisticato – dieci anni di violino al conservatorio – di musiche popolari (ma anche rinascimentali, barocche e world music antelitteram) trasformate in fiabe ricche di allegorie che, mentre infuriava il politichese e l’impegno sempre e comunque, andava contromano, in direzione ostinata e contraria.Solo apparentemente fragile e tenero d’animo: «A quei tempi, credimi, ero molto più forte mentalmente di adesso, ero veramente incazzoso. Al Festival Pop di Villa Pamphili han cominciato a tirarmi qualsiasi cosa, allora ho cominciato a parlare con tale impeto che dopo tre minuti eran tutti zitti». Epica l’apertura per Lou Reed al Palasport, accoppiamento surreale: «A me andò benissimo. Non mi si filò nessuno. Poi appena son saliti gli String Driven Thing il violinista si è preso una biglia di ferro in fronte ed è scoppiato il finimondo. Polizia, lacrimogeni, scontri. Noi siamo scappati via attraverso un areatore, come James Bond».Che tempi! Angelo aveva trovato subito un management all’altezza in David Zard, ma c’ha messo tre Lp a farsi notare. «Ce n’è anche uno ancora prima che la RCA non ha fatto uscire». Poi, scrive una lettera e manda una cassetta a Paul Buckmaster, arrangiatore di Elton John in gran spolvero. «Quando sono andato a prenderlo all’aeroporto ho capito che la cassetta non l’aveva mai sentita, aveva solo letto la lettera. E mi chiese solo 1000 sterline, capisci? Alla fine mi ha detto “tu hai il dono di parlare agli uomini e agli animali”. Come San Francesco», sottolinea con ironia l’iperbole. «E l’album con Buckmaster, non poterono non farlo uscire».Leggenda vuole che il pur geniale Ennio Melis, due anni dopo, quando sentì «il topolino» rigò il disco e non ne volle più sapere. «E Zard fu bravissimo, ruppe il contratto e mi portò altrove, mantenendo sempre la proprietà dei master. Ma anche il nuovo dopo sei mesi non era andato da nessuna parte. È stato Paolo Giaccio», erano i tempi di Per Voi Giovani, «a dirmi, a proposito di Alla Fiera dell’Est che avevamo messo sulla facciata B del singolo, che avevamo in mano qualcosa di cui non ci rendevamo nemmeno conto. Fece un bellissimo servizio su Odeon, venendo fino a casa mia dove c’era una stanza piena di strumenti etnici. Il giorno dopo, il brano esplose». Da che ti sei reso conto? «Mi riconobbero appena entrato al supermercato!».Non incontravo Angelo da tanti anni, ora ci vediamo tutti i giorni: siamo insieme in un lungo tour privato della Banca di Asti e ci parliamo ovunque: nel backstage, al ristorante dove tiene banco («ma qui mettono il tartufo anche sul gelato?»), o per strada mentre fuma i suoi sigari (l’avreste mai detto?). All’inizio per pochi minuti, poi sempre di più, perché quando Branduardi apre lo scrigno esce un ricordo dopo l’altro, e non ce n’è uno che non valga la pena memorizzare.È uno dei quei musicisti che ti dà veramente idea che l’arte, e l’artista, hanno il privilegio di attraversare barriere e confini. «Berlino, 1989, ero lì, col piccone sul Muro quella notte. Ma io la conoscevo bene Berlino Est. Mi chiamavano spesso a suonare e mi pagavano con marchi “pesanti”, quelli veri, per tipo 10mila lire, e il resto nei “loro” marchi.A un certo punto avevo guadagnato l’equivalente di 250 milioni di lire, ma non potevo farci nulla, neanche comprarmi un caffè perché agli stranieri non era concesso. Avevo un’interprete musicalmente coltissima, Margarethe, che mi seguiva ovunque. La notte uscivo a passeggio, nell’aria l’odore dei riscaldamenti, e sapevo che nell’ombra c’era lei. Una notte mi portano in macchina, facendo giri stranissimi, a una casetta in campagna.Apro la porta e sui muri c’erano solo violini. Son diventato pazzo, mi son messo a suonarli uno dopo l’altro. Alla fine mi hanno concesso di comprare uno Steiner, quello col suono più bello di tutti. Per soli 20 milioni. Anche se sono sempre rimasto col dubbio che fosse uno strumento sequestrato, chissà a chi. Ma quei dieci concerti che ho fatto lì sono stati i più belli della mia vita».Risponde al mio sguardo interrogativo: «Capivano tutto. Tutto! I testi tradotti sullo schermo e in platea una partecipazione totale, in un silenzio che rivelava solo passione».Ha raccolto onorificenze e premi, fra cui il David di Donatello per la colonna sonora di un film misconosciuto di Luigi Magni, Secondo Ponzio Pilato, per il quale GianLuigi Rondi scrisse “Il film non è bello, ma la colonna sonora vale il prezzo del biglietto”.Ha registrato in cinque lingue e suonato ovunque, nelle Cattedrali e nei Parlamenti, a San Siro con Crosby Stills Nash e al Santuario di San Francesco a Monteluco. L’ultimo, e c’è tanto orgoglio nel dirlo, è stato alla National Gallery di Londra. «Il primo musicista ad essere stato invitato. Abbiamo fatto tutto l’Infinitamente Piccolo, l’album ispirato a San Francesco, fra due Caravaggio e un Guido Reni. In tre. Il mio pianista Fabio Valdemarin non si decideva a cominciare, lo guardo e vedo che gli tremano le mani. Poi comincia, ed entra la magnifica chitarra classica di Maurizio Fabrizio. Poi entro io col violino e da quel momento, ancora una volta misteriosamente, tutto va al suo posto».Parla come un signore all’antica, si muove con rispetto e gentilezza quasi imbarazzante. Vive un po’ in una bolla personale, è chiaro che guarda al mondo ma soprattutto al suo mondo, fatto di piccoli rituali e di amore sfrenato per la Musica.A casa, in un paesino in provincia di Varese, sveglia alle cinque e mezza, massimo alle sette. «Scendo in studio, mezzo addormentato, il sole che sorge, primo caffè e sigaro, comincio a scrivere, lascio che l’ispirazione esterna o interiore vengano da sole. A volte dà risultati. Non sono un ricercatore spasmodico, lascio che le cose vengano a me, mi ci imbatto».Una persona così riservata è inevitabile arrivasse a un breaking point: «Nel 1980 mi son trovato su un palco gigantesco disegnato da Oscar Niemaier di fronte a 140 mila spettatori a Parigi, sulla pista dell’aeroporto Le Bourget. Bellissimo, ma alla fine ho detto basta! Non ero nato per fare la rockstar». «Non era quello che volevi», suggerisce qualcuno. «No no, lo volevo. Quando non sei nessuno lo vuoi il successo, ma quando arriva se non è la tua essenza non sai che fartene».Ha continuato con dischi preziosi, scoprendo che la nicchia può essere un pubblico vasto: l’ultimo è Il Cammino dell’Anima, trascrizione della musica della Santa tedesca Hildegard von Bingen, proto-femminista che nel 1000 scriveva musica e aveva fondato un convento di donne ricche e libere di cantare e ballare. Album particolarissimo, e poi tour sold out cancellato per il Covid. Solo lui può istillare tanta curiosità da farti cercare a tavola, l’iPhone appoggiato sulla bottiglia di vino, il preludio del Tristano e Isotta di Wagner: «Forse la musica più bella mai fatta in Occidente.E allo stesso tempo la fine della musica occidentale: c’è dentro un accordo, il cosiddetto Tristan-chord, che è indefinibile, un’assurdità. I Radiohead ci han costruito un brano, Ideoteque. Wagner era antisemita, ed è stato messo via per tanto tempo anche perché era il musicista preferito del Führer. Poi, Leonard Bernstein l’ha reinciso. Gli han chiesto perché l’avesse fatto, lui ebreo: “Lo odio. Ma in ginocchio”».Sul palco viene accolto con un affetto che va oltre l’artista di successo. Le sue canzoni, da Vanità Vanità a Si Può fare a La pulce d’Acqua, rivestite dal suono di una grande orchestra sono magnifiche, melodiose ed evocative. Lui le interpreta con grande serietà e, quando serve, humour: «Alla Fiera dell’Est non è una filastrocca per bambini, è violentissima, tutti ammazzano tutti!».Rimane una talentuosa eccezione anche 50 anni dopo. Un ultimo dubbio: avresti avuto successo senza quei capelli? «No!», ridendo. Battuta o verità, questo è Angelo Branduardi