La Stampa, 1 dicembre 2024
Luca Ricolfi e la sinistra che tace sulla violenza di piazza
«In un Paese democratico, nessun governo è davvero in grado di fermare la protesta, anche quando avrebbe il diritto di farlo secondo la legge». Luca Ricolfi, 74 anni, sociologo e saggista torinese, riflette sugli ultimi scontri di piazza.
Uno sciopero generale contro la manovra, l’esecutivo se lo è meritato?«La manovra c’entra poco. Non è stato uno sciopero sindacale, ma politico: è come se fosse andata in piazza l’opposizione».
Come giudica la manovra?«Abbastanza bene, dati i vincoli europei. In realtà è una manovra di sinistra o da “destra sociale”, con quasi tutte le risorse a sostegno dei deboli».
E l’intervento sul cuneo fiscale è efficace?«Sì, perché sostiene il potere di acquisto dei ceti medio-bassi. Non penso però sia efficace sul piano del consenso, visto che si limita a stabilizzare una misura dell’anno scorso».
La Cisl non si è unita allo sciopero, errore o buon senso?«Una scelta inevitabile, vista la politicizzazione del sindacato di Landini. La Cisl vuole fare sindacato, non politica, ma senza Cgil e Uil il suo potere negoziale risulta ridotto».
Landini dice di voler rivoltare il Paese, esagera?«Mi pare che giochi per sé stesso e per il proprio futuro, non credo che farà a lungo il sindacalista. Le sue parole servono a posizionarsi come guru di una sinistra pre-’89, che aspira a cambiare il sistema, ovvero un intero assetto sociale. Non ci sarebbe niente di male se non fossimo in un momento in cui torna la violenza di piazza, e il Pd non ha parole forti e chiare di condanna della violenza».
Secondo D’Alema la destra non è maggioranza nel Paese, che ne pensa?«Ha ragione, ma il problema è che la sinistra lo è ancora meno della destra. Molto di meno, perché i Cinque Stelle sono sia di sinistra sia di destra, come si è visto dall’avvio di dialogo con il partito “rosso-bruno” tedesco di Sahra Wagenknecht».
Eppure le proteste ci sono, perché secondo lei?«Le proteste violente ci sono perché un piccolo segmento della sinistra pensa, o finge di pensare, che esiste un pericolo fascista. Le proteste delle persone normali, invece, ci sono perché l’inflazione ha compresso i salari reali e chi non è ricco non può permettersi di ammalarsi, dato lo stato penoso della sanità pubblica. La gente intuisce che non è colpa del governo in carica, che infatti tiene nei sondaggi, ma è arrabbiata e pretende una soluzione».
Come dovrebbe reagire il governo?«Forse, dati i vincoli europei, riprendendo l’antica agenda delle “riforme a costo zero”, a partire dalla semplificazione burocratica».
Si fanno troppi scioperi o ha torto Salvini a voler precettare?«Più che troppi, gli scioperi sono sempre meno utili. Quanto a Salvini è come Landini: pensa molto a gestire la sua immagine, e poco a risolvere i problemi».
Qual è il limite della protesta e quando un governo ha diritto a fermarla?«In un Paese democratico, nessun governo è davvero in grado di fermare la protesta, anche quando avrebbe il diritto di farlo secondo la legge. Però distinguerei fra la protesta di piazza, che si può solo gestire con prudenza, e le decine di piccole intimidazioni che in questi mesi hanno reso impossibili convegni e manifestazioni. Qui c’è un confine: la violenza che impedisce l’espressione del pensiero è inaccettabile, e un governo democratico non dovrebbe tollerarla. Il problema è che, per difendere la libertà, occorrerebbe anche il contributo dell’opposizione, che sfortunatamente non intende offrirlo».
Come si può affrontare il problema dei centri sociali?«Non ci sono solo i centri sociali. C’è anche CasaPound. Ci sono le decine di migliaia di abitazioni occupate e sottratte a chi ne avrebbe diritto. Per non parlare dei campi rom. Ma il problema è insolubile: quando l’illegalità viene tollerata per decenni, non si può dal mattino alla sera buttare fuori gli occupanti. Nel breve periodo sarebbe già un risultato impedire nuove occupazioni, e intervenire gradualmente su quelle più pericolose per la sicurezza dei cittadini».
Perché a Torino cova una violenza particolare?«È un retaggio del passato: gruppi anarchici ed estremisti, più o meno collegati alla lotta armata, erano già radicati in Piemonte negli anni ’70. Ma allora, a bilanciare i pesi, c’erano un Partito comunista e un sindacato fortissimi, la Federazione lavoratori metalmeccanici, la Fiat e un tessuto industriale capillare. Oggi tutto questo sta svanendo troppo in fretta».