Corriere della Sera, 1 dicembre 2024
Le lezioni americane di Borges
Nel biennio 1967-68 Jorge Luis Borges venne chiamato dall’università di Harvard diciotto anni prima delle lezioni che Italo Calvino avrebbe dovuto tenere nello stesso ciclo: le Charles Eliot Norton Lectures. Le pagine de Il mestiere della poesia, pubblicate ora dalla Luiss University Press, avrebbero potuto essere intitolate «Le lezioni americane di Borges». Il destino le ha difatti tenute nascoste: è suo compito, in fondo, intromettersi. Giocare con le date, scardinare coincidenze. Queste lezioni, che tornano oggi in libreria nella traduzione di Angelo Morino e Vittoria Martinetto, sono state a lungo considerate perdute, per sempre. Forse per responsabilità del caso o forse per volontà dell’autore stesso, poiché si erano perse nell’esercizio che Socrate considerava il più nobile: il dialogo orale.
Borges, ormai cieco, non lasciò appunti scritti sulle sue lezioni americane. Parlò semplicemente di fronte a un pubblico privilegiato. Probabilmente, l’idea che queste lezioni sull’enigma del verso fossero scomparse per sempre (perdute? sepolte?) ha contribuito a rimuoverne l’esistenza dall’immaginario collettivo. Borges stesso, nella prima lezione, sembra quasi profetico quando ricorda che per Ralph Waldo Emerson le biblioteche sono come caverne magiche abitate da morti, finché qualcuno non apre un libro, riportando in vita frammenti di esistenza e di versi. E con essi, anche il poeta.
Pur essendo note le date esatte in cui queste lezioni si tennero, a partire dal 24 ottobre del 1967, esse rimanevano inaccessibili come i geroglifici prima della stele di Rosetta e di Jean-François Champollion. Questa magia, che ci sembrava perduta per sempre riemerge grazie a questa scoperta: un magnetofono, una registrazione rimasta per trent’anni in un angolo della biblioteca di Harvard a Cambridge, in Massachusetts. Una mano anonima aveva premuto il pulsante di registrazione, regalandoci un testo da sbobinare, una forma di archeologia della conoscenza.
Quante volte può capitare nella vita di scoprire un testo semisconosciuto di Borges? Questo libro è nelle nostre mani grazie a un inaspettato colpo di resilienza analogica: una bancarella dell’usato a Los Angeles. La curiosità di un amico, Maximiliano Chechile, che ha notato il testo. Una telefonata che mi è arrivata tra due continenti. La coincidenza della partecipazione di Borges alle Norton Lectures, le stesse che Calvino non riuscirà a tenere nel 1985 a causa di una morte prematura e che hanno ispirato i miei libri scritti per Luiss University Press con Andrea Prencipe. E una rocambolesca, quasi pedagogica, scomparsa e ricomparsa di questi testi.
Perché allora non giocare con grazia con i fatti e immaginare come reagirebbe una civiltà aliena di fronte alla voce di Borges?
Ritmo ipnotico, voce profonda. Parole sottratte da angoli mai visti da occhio umano della Biblioteca di Babele. Immagino gli alieni intorno al disco d’oro. In cerchio. Play. Fruscii. Voce. Indizi di un’indagine: «Now, we are apt to fall into a common confusion. We think, for example, that if we study Homer, or the Divine Comedy, or Fray Luis de León, or Macbeth, we are studying poetry. But books are only occasion for poetry».
Occasioni. Cos’altro si può desiderare?
Gli alieni sono di fronte a quella che possiamo battezzare Borges-Machine, come la Boltzmann-Machine che è valsa a Geoffrey Hinton il premio Nobel per la Fisica 2024, per avere posto le basi dei neuroni artificiali e dell’IA. Ma molto più potente. Perché occasione di conoscenza di ciò che ci rende univocamente umani, quella che Borges stesso nella prima lezione dedicata a The riddle of poetry, l’indovinello della poesia, invoca subito: «I can offer you only (…) perplexities». Perplessità. Non è una resa. È una strategia. Un sentiero per la conoscenza, non soltanto dei versi. Come nella metafora del Cavaliere dimezzato di Calvino più frammentiamo e più comprendiamo riguardo al tutto. Come nella scienza: il microscopio ci ha svelato il senso della vita.
Hinton ha ideato la sua macchina per cercare di dare una «memoria collettiva» ai suoi neuroni artificiali. Lui stesso l’ha descritta come un sentiero di montagna: anche se non lo hai mai perlustrato lo puoi riconoscere nelle tracce degli altri. Così dagli input (i dati, le domande) si passa agli output (le risposte possibili, i futuri ipotetici A, B e C). In mezzo i sentieri nascosti dalla matematica che nemmeno il suo artefice conosce. La black box, la scatola nera. Immaginate allora gli alieni che, come di fronte al Versificatore di Primo Levi, possano agire sulla macchina e aggiungere a mano la perplessità. Nella Macchina di Borges sembrano ruotare ingranaggi diversi. Le catene portano a corridoi segreti. Le scale al vuoto. Le porte in ambienti che sembrano tutti uguali ma che sono diversi per un dettaglio.
Ne verrebbe fuori una Macchina capace di raccontare la tragica storia dell’uomo fatta di speranza, orrore e amore, come «Les sanglots longs/ Des violons/ De l’automne». Ovvero: i lunghi singhiozzi dei violini d’autunno. Sono i tre versi con cui inizia la poesia Chanson d’automne di Paul Verlaine. Solo così gli alieni potrebbero capire cosa accadde il 1° giugno del 1944 alle ore 21. Radio Londra trasmise questo verso. Era un messaggio in codice, l’indicazione che la Resistenza francese attendeva. Era l’avvio dell’operazione che avrebbe portato allo sbarco in Normandia.
L’algoritmo prevedeva che il verso di Verlaine fosse completato di lì a poche ore. Ma il giorno dopo la Bbc trasmise un’altra volta: i lunghi singhiozzi dei violini di autunno.
Di nuovo il fato: il tempo era troppo bello per avviare lo sbarco. I caccia tedeschi avrebbero potuto trucidare facilmente le truppe alleate. Poi però arrivò il cattivo tempo. Anche troppo. Il 5 giugno nonostante il meteo la Bbc alle 22.15 trasmise: «Blessent mon cœur/ d’une languer/ monotone». Feriscono il mio cuore di un monotono languore.
Il 6 giugno, nel sangue, iniziò la liberazione del mondo dal nazismo. Con una poesia.
Gli alieni stessi, rovistando come antropologi tra le tracce tecnologiche lasciate dalla nostra civiltà, si accorgerebbero facilmente che era questo il difetto dell’IA cresciuta con una dieta fatta di 0 e 1, On e Off, vero e falso, sì o no, fake news e verità, laddove il vero dilemma è posto dalla verosimiglianza e dall’inestricabile gnommero di frammenti di verità inquinati quasi geneticamente da falsità possibili, plausibili, non verificabili. Ecco, l’impossibilità di digerire negli input la tensione continua tra opposti di Calvino, la perplessità di Borges di fronte all’indovinello della poesia, la scienza di Marcel Proust, capace di anticipare di oltre un secolo con le sue madeleine ciò che oggi la scienza sta scoprendo: l’olfatto è collegato alle parti del cervello preposte al ricordo. La memoria involontaria proustiana ci ricorda che dovremmo difendere una pedagogia dell’imperfezione: ognuno, in realtà, ha il suo ricordo.
Ecco la nostra difesa contro il rischio di essere inghiottiti da un algoritmo: non possiamo essere ridotti a un output predeterminato, a un futuro già colonizzato. Siamo tutti un irripetibile libro unico della Biblioteca di Babele il cui segreto rimane intatto nella Borges-Analogic-Machine.
------------------------------------------