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 2024  novembre 29 Venerdì calendario

La Ue malata di guerra da Angela a Sahra

La guerra ha gettato nel caos gli schieramenti politici europei che patiscono tutti, senza eccezioni, fratture al loro interno.
Orizzontarci nel labirinto di quei distinguo sarebbe complicato almeno quanto elencare i gruppi parlamentari di cui è entrato o ha cercato di entrare a far parte il M5S nei dieci anni di sua presenza al Parlamento di Bruxelles. Sempre in cerca di un’anima gemella, partendo dal no-euro Nigel Farage per arrivare alla “conservatrice di sinistra” Sahra Wagenknecht.
Se trascuriamo per un momento lo spettacolo della corsa alle poltrone che ha preceduto il voto di mercoledì scorso, è sul come relazionarsi alla superpotenza russa che si manifestano i dubbi più lancinanti. Dopo l’invasione dell’Ucraina ci si è divisi tra favorevoli e contrari alle sanzioni a Mosca e sugli armamenti a Kiev, tra bellicisti e aspiranti mediatori, tra Paesi che ricordano come un incubo il giogo sovietico e nostalgici della ostpolitik. Sensibilità e interessi che rimescolano gli schieramenti fino a incrinare trasversalmente le correnti politiche ereditate dal secolo scorso.
Il fattore Putin, sommato all’ostilità per i migranti e per le faticose implicazioni della transizione ecologica, si è rivelato essere un potente incentivo all’ondata dei nazionalismi che trascina a destra l’Unione europea e rimette in forse la sovranità a lei conferita.
Scavando sotto le strategie politiche e militari, incontriamo il substrato culturale e ideologico di questo inedito “pacifismo di destra” che non riempie le piazze, ma trova fra i suoi promotori anche i cultori del sovranismo e dell’identitarismo.
Neppure i tre anni di allineamento forzato alle direttive Nato hanno fatto venir meno il fascino che l’autocrate del Cremlino esercita sui critici del globalismo di matrice statunitense, riuniti nell’islamofobia e nell’omofobia, devoti al mito della Tradizione. Quand’anche ne criticano a parole la prova di forza, non hanno mai smesso di ammirare il Putin che sul Financial Times annunciava: “L’ideale liberale è diventato obsoleto”; e avvertiva Angela Merkel: “Ha commesso un errore cardinale accogliendo in Germania un milione di profughi siriani”.
Certo, la compattezza ideologica non poteva bastare a tenere uniti i sovranisti quando sono stati richiamati a scegliere fra Kiev e Mosca. Ognuno ha seguito la sua convenienza, corsa agli armamenti compresa, in attesa che la vittoria di Donald Trump rimescoli le carte. Così oggi se l’ungherese Viktor Orbán e lo slovacco Robert Fico volano a Mosca per incontrare lo zar, o se il dimissionario cancelliere tedesco Olaf Scholz rompe il fronte occidentale e gli telefona, i polacchi e i baltici lo vivono come un tradimento. Ma intanto dall’Austria alla Romania, territori un tempo asburgici, affiorano nostalgie etno-nazionaliste poco compatibili con la disciplina atlantica. L’intero fianco Est dell’Unione è scosso da un’instabilità che trova il suo epicentro tellurico nella crisi simultanea di Germania e Francia, le grandi malate d’Europa.
Il governo di Parigi durerà solo finché conviene a Marine Le Pen, cioè poco. Il cancelliere socialdemocratico tedesco ha scarse probabilità di venir rieletto il 23 febbraio prossimo. Brindiamo dunque al fallimento di Macron e di Scholz? E allo zoppicante esordio della commissione Von der Leyen, aggrappata al fantasma di Mario Draghi e alla stampella di Giorgia Meloni? Cin cin, ma non s’intravedono classi dirigenti alternative in grado di rimpiazzarli. Più precisamente, le forze alternative emergenti – sia quelle di destra (con maggiori chance di successo), sia quelle progressiste – riscuotono consensi solo gettandosi alle spalle gli attuali vincoli comunitari europei.
Negoziare con la Russia prima che il conflitto si estenda per inerzia dall’Ucraina ad altre regioni del continente, ci appare giustamente l’urgenza del momento. Il che incoraggia a non guardare troppo per il sottile: in nome della pace, veniamo a trovarci al fianco di ultras nazionalisti quando non di loschi figuri reazionari, gente che le armi semmai preferiscono rivolgerle contro il “nemico interno”.
Viene utile, per comprendere la loro mentalità, il ritratto ammirato che Marcello Veneziani dedica all’ideologo putiniano Aleksandr Dugin, fondatore a suo tempo del partito nazional-bolscevico. Si trova in Senza eredi, appena pubblicato da Marsilio. In alternativa al “dominio global” Dugin ci offre la visione di una Eurasia imperniata sull’asse russo-tedesco, sulle potenze di terra contro le potenze di mare. Così dal nostro blocco continentale sorgerebbe l’alternativa al liberalismo, all’americanizzazione del mondo e al dominio del mercato. Una suggestiva declinazione contemporanea dell’ideologia reazionaria (non a caso Veneziani accosta il pensiero di Dugin a quello di Evola) che suona familiare alle nostre orecchie. Di certo sono argomenti riaffioranti dal malessere diffuso nella Germania di oggi. Un paese disorientato e spaventato nel quale, paradossalmente, a sostenere la prosecuzione a oltranza del conflitto in Ucraina, da estendere sul suolo russo, troviamo una costola della sinistra come i Verdi tedeschi. Proprio loro, che trassero origine dal movimento pacifista e antinucleare contro gli euromissili, ora sfidano Putin cavalcando i Taurus made in Germany; e a loro volta crollano elettoralmente, diventando bersaglio di una campagna populista secondo cui l’ecologia sarebbe un lusso che solo le classi abbienti possono permettersi.
Avverto in giro tardiva nostalgia della saggezza di Angela Merkel, una che sapeva parlare in russo a Putin perché nativa della Germania comunista. Proprio come l’astro nascente Sahra Wagenknecht, fondatrice di una Lega (BSW) che ha per sigla le iniziali del suo nome. Peccato di superbia che Merkel non avrebbe mai commesso.
Ma non è certo questa l’unica differenza fra le due figlie della Ddr. Chi vede in Sahra, nella matrice comunista della sua militanza giovanile, l’antidoto all’estrema destra di Alternative für Deutschland, dovrebbe leggere il suo libro-manifesto, Contro la sinistra neoliberale (Fazi editore) con prefazione di Vladimiro Giacché. Titolo dell’edizione tedesca: I presuntuosi, che sarebbero poi “la sinistra alla moda” incapace di sintonizzarsi con gli interessi e la cultura del popolo. Sì, questa ce la sentiamo ripetere tutti i giorni – élite contro popolo – ma… quale popolo? Senza bisogno di usare termini scomunicanti come “rossobrunismo”, e senza richiami forzati al nazionalbolscevismo di Dugin, limitiamoci a constatare che Sahra Wagenknecht s’inserisce a pieno titolo nel filone (attualizzato) del “socialismo in un paese solo”. Ovvero: sarà possibile disporre di prestazioni di sicurezza sociale adeguate e di miglioramenti economici per la classe lavoratrice solo rafforzando la sovranità degli Stati nazionali oggi assoggettati ai vincoli comunitari dell’Ue. Sahra non disdegna affatto l’etichetta di “sovranista”, le piace affiancare la parola “patria” alla parola “socialismo”, si batte per una “deglobalizzazione sensata della nostra economia”. Naturalmente il presupposto di un tale disegno è delimitare la sfera dei cittadini aventi diritto al sostegno pubblico: “più Stato sociale, meno immigrazione”, scrive. Non occorre accusarla di xenofobia per riconoscere nella propaganda di BSW una forma di sciovinismo del welfare. La accomuna alla propaganda della destra il sottinteso che gli immigrati siano un gravame troppo oneroso di cui sono vittime i nativi, il vero proletariato. Lasciandoci col dubbio che BSW sia l’altra faccia della medaglia di AFD. Non a caso dal suo vocabolario vetero-marxista pare essere scomparsa una sola parola: internazionalismo.