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 2024  novembre 29 Venerdì calendario

Katia Ricciarelli parla di Puccini

È il 29 novembre 1924. Nel suo letto d’ospedale un musicista muore. Sul suo comodino sono poggiate trentasei pagine di note. Il finale (incompiuto) di Turandot. Tutto il mondo piange l’uomo che ha fatto piangere il mondo intero. Esattamente cent’anni dopo, assieme a Katia Ricciarelli, già interprete ideale della sua musica, proviamo a capire perché Giacomo Puccini, amatissimo ma anche sottovalutato, popolare eppure raffinato, sia (assieme a Verdi) il compositore d’opera universalmente più eseguito.
Signora Ricciarelli: lei come si spiega l’intramontabile popolarità di Puccini?
«Quella di Puccini è musica che prende alla gola. Impossibile sottrarsi al suo potere di seduzione, di commozione. Non mi vergogno a dirlo: ogni volta che assisto alla morte di Liù io piango. Lo confesso: personaggi come Manon o Butterfly non sono mai riuscita a interpretarli. Soffrivo troppo. Il loro canto ti penetra nel cuore; ti trapassa l’anima. Rischi di uscirne distrutta».
Eppure durante il ’900 molti critici hanno liquidato Puccini come «sentimentale», «ricattatorio», «facile».
«Ignoranti, arroganti... pazzi! Due direttori eccelsi e tutt’altro che sentimentali come Kleiber e von Karajan, adoravano Puccini. L’avrebbero venerato (posso testimoniarlo personalmente) se l’avessero ritenuto solo sentimentale? La verità è che il pubblico chiede emozioni. E nessuno sa emozionarlo più di Puccini».
E il rischio di «puccinismo»? Di trasformare cioè in svenevolezza la sua irresistibile sensibilità?
«Anche se imparentato al verismo, Puccini va cantato col rigore e l’eleganza del belcanto. Senza strafare.
Quegli interpreti che c’infilano dentro singhiozzi, pianti, sdolcinature, lo rendono volgare, falso. L’emozione vera la trasmetti restando fedele a Puccini. In Puccini c’è già tutto: non ha bisogno che si aggiunga altro».
Da donna, oltre che da interprete: che cosa rende le proverbiali eroine di Puccini tanto speciali?
«Esteriormente le delinea secondo lo schema sintetizzato da George Bernard Shaw: l’opera è quella cosa in cui il tenore vuole andare a letto col soprano, e il baritono vuole impedirglielo. Ma in Puccini la differenza la fa proprio il soprano. Che appare spesso fragile, debole, quasi sempre vittima. Eppure non è mai la bambolina innocua che sembra. Prendiamo la più dimessa e celestiale di tutte: suor Angelica».
Con cui lei nel ’73 fece un tempestoso debutto alla Scala. Bagarre storica: fans e detrattori scatenati.
«Dopo trent’anni ho avuto il coraggio di ascoltare la registrazione di quella serata orrenda. Beh: resistetti come una leonessa. E ora so perché. Fu proprio il personaggio, a ispirarmi. Anche Angelica viene mortificata, umiliata. Ma sotto il velo serafico rivela un carattere di ferro. Altro che vittima passiva!».
E Mimì? Con lei fece il debutto assoluto nel ’69 a Mantova. Anche Mimì è fragile, travolta dagli eventi.
«Ma sa anche determinarli. Detesto le Mimì tutte palpiti e moine che si vedono in giro. Mimì non capita nella soffitta di Rodolfo per caso. Aspetta che lui resti solo per andare a rimorchiarselo. La chiave che le cade non è un incidente: la fa cadere lei, per restare al buio con lui... Io e Alessandro Baricco, ad una conferenza sul personaggio, ci mettemmo a quattro zampe per mimare questa scena. E dimostrare che Mimì assomiglia a tante ragazze d’oggi: la sa più molto più lunga di quanto generalmente si pensi».
Tosca (che lei ha anche inciso con Karajan) ha invece un caratterino deciso, una personalità marcata.
«Altro personaggio modernissimo. Pensiamo al tema della violenza sulle donne. Una volta un mio amico vescovo obbiettò: Tu la dipingi come una martire. Ma Tosca è un’assassina. E suicida. Eccellenza – risposi – anch’io, piuttosto che andare con uno contro la mia volontà, mi butterei da Castel Sant’Angelo».
Finché in Turandot questi due opposti, forza e fragilità, si riuniscono in due eroine complementari.
«Che ho entrambe cantato. Con Zeffirelli alla Scala capii che la fragile Liù non è fragile affatto: se doni la vita per amore sei forte come una roccia. E von Karajan mi chiese una Turandot opposta alla virago della tradizione. Eterea, trasognata. Una bimba, ma crudele. Contrasto efficacissimo. Perché Puccini riserva anche questo tipo di sorprese».
Sul’incompiutezza di Turandot ci sono due scuole di pensiero. Per alcuni Puccini fu bloccato dalla morte. Per altri, semplicemente, non fu capace di concepire un happy end. Lei che ne pensa?
«Puccini incapace di qualcosa? Non scherziamo. Quelli che cercano di ridimensionarne il talento sono gli stessi che non riuscirono a distruggerne la popolarità. La verità è che, da cent’anni in qua, non c’è teatro al mondo che non abbia in cartellone almeno una sua opera. Noi italiani dovremmo pensare a quanto onore ci reca il nome di Giacomo Puccini, invece di cercare sminuirlo, perfino davanti ad un’amore che è semplicemente universale».