la Repubblica, 29 novembre 2024
Donald Trump. Come tutto ebbe inizio
L’erba è perfettamente tagliata, nei giardini davanti alle case, qui a Wareham Place. Siamo a Jamaica Estates, un dedalo di strade immerse nel verde, dove il Queens offre forse il meglio di sé, fra i cottage con porticati in pietra e tetti spioventi su balconi in foggia medievale. Quartiere silenzioso, sospeso in un’armonia rarefatta, dove gli scoiattoli si inseguono sui rami ed è una notizia se qualcuno vernicia la staccionata, coinvolgendo i vicini sulla tonalità del colore, fosse mai che un azzardo cromatico turbasse gli umori del club. È qui che inizia la nostra storia, fra i sorrisi placidi e la cordialità fraterna di queste pacifiche graziose villette, spesso con la facciata “a graticcio” tipica della Germania da cartolina, così lontane eppure così vicine all’alveare caotico di Manhattan. È il 14 giugno del 1946, e Donald John Trump nasce in una di queste casette alla Hansel e Gretel.
Emette il suo primo vagito mentre l’altrettanto neonata Repubblica italiana muove i primi passi e il Medio Oriente comincia a fibrillare per l’inattesa protesta del popolo palestinese. Sì, come un principino da fiaba fra i finti manieri in miniatura di questo neighborhood newyorchese, Donald viene proverbialmente al mondo nel bel pieno di uno sconvolgimento planetario che niente ha della fiaba quanto dell’incubo, con le rovine radioattive di Hiroshima ancora fumanti, il processo di Norimberga in attesa di verdetto e un certo Juan Perón appena acclamato presidente dell’Argentina. Ma tutto questo non incrina la festa di casa Trump per il quarto erede, preceduto da due sorelle e secondo maschietto dopo Fred jr., nato nel ’38 quando ancora Adolf Hitler sembrava solo un problema degli europei.
A dare l’annuncio del lieto evento sono i genitori, nessuno dei quali è un purissimo americano: nelle vene di Mary scorre sangue scozzese, e infatti di cognome fa MacLeod, mentre Fred Trump è cresciuto sì nella Grande Mela, ma sentendo parlare in famiglia il tedesco, perché «noi veniamo dalla Renania, è lì che stanno le nostre radici, ci chiamavamo Drumpf, e fu mio padre a venir qui in America a fine ’800 per fare chissà cosa, e gli andò bene perché si mise a preparare zuppa e fagioli per i cercatori d’oro del Klondike». Tant’è, com’è che un tedesco e una scozzese si sono messi insieme a New York? Miracoli di questa città, in cui l’immigrazione non è l’eccezione ma la regola, quindi valga la norma che ognuno porta chi è per diventare qualcosa che non si sa.
Nel caso dei Drumpf, poi tramutati in Trump, il cosiddetto sogno americano era stato traslitterato nella più prodiga delle accezioni: arricchito a forza di sfamare chi si buttava nella corsa all’oro, nonno Trump aveva aperto con la moglie una nuova attività, stavolta per dotare le masse non di una scodella fumante ma di un tetto sulla testa. Sì: case. Solo che il nostro era morto di spagnola, e lì era entrato in scena il figlio, volenteroso ma ahimè minorenne. Nessun problema: erede di un migrante di Kallstadt accolto nel grembo della Mater Metropoli, il buon Fred si era lanciato non senza una sana dose di faccia tosta nella missione di plasmarla lui stesso, la metropoli, e cosa di meglio se non il ramo immobiliare, con le sue sconfinate praterie dal New Jersey fino a Hempstead. Ci si era messo d’impegno insieme alla madre, e con l’insegna “Elizabeth Trump & son” gli era riuscito ritagliarsi il proprio spazio nel mercato, risultato più che notevole se si considera che Fred era abbreviativo di Frederick, ed egli restava comunque un immigrato tedesco.
Non è un mistero che gli Stati Uniti di inizio secolo non fossero propriamente concilianti con i Deutschamerikaner, tacciati d’essere pericolosi infiltrati di quegli spregevoli prussiani contro cui Washington si schierò nella Grande guerra (e d’altra parte erano stati agenti tedeschi a far saltare in aria, nel 1916, l’intera isola di Black Tom dinanzi a New York, dove si trovavano ammassate munizioni per gli alleati d’oltreoceano).
Insomma, l’odio per i simil-Trump (anzi Drumpf) non era affatto celato, perfino i bambini a scuola erano indottrinati contro la feccia teutonica, e non è un caso se nel ’18, nell’Illinois, un minatore fu letteralmente linciato dalla folla inferocita solo perché parlava con accento tedesco dell’est. Vedi l’ironia della sorte? Der kleine Donald nasce nel ’46 con il marchio d’aver sangue di migrante, proprio lui, venuto alla luce mentre ci sono ancora cittadini tedeschi confinati a Ellis Island per la sbrigativa accusa d’essere filonazisti (lo zio Sam ne imprigionò oltre diecimila, in un’ondata di autentica germano-fobia).
Così comincia dunque la storia, con il quarto frugoletto di casa Trump che strilla nella culla d’una villetta in stile Tudor di Jamaica Estates, figlio di un papà rampante che da qualche anno va dicendo in giro di essere scandinavo, pur di sottrarsi all’onta di quel passato renano. Furbizie dei migranti!
Resta il fatto che l’orgoglio di famiglia stava tutto racchiuso in quella sfida combattuta e vinta dai nonni e da Fred, un’attività immobiliare fondata da migranti tedeschi che in capo a pochi anni era già una piccola certezza del mercato. Solo che c’era adesso da prendere la rincorsa, e far decollare l’aliante della “Elizabeth Trump & son” sulla scia di un dopoguerra che dischiudeva prospettive di guadagni a plurimi zeri, se solo si fosse avuta la tenacia di rilanciare, rilanciare e ancora rilanciare.
Donald cresce tenendo fisso lo sguardo su quell’insegna, come un appuntamento irrinunciabile ed esaltante, fino a quando, a vent’anni, iscritto a Wharton per studiare Economia, riceve una mattina la notizia che la matriarca nonna Elizabeth ha salutato questo mondo. È lì che scocca la sua ora, è lì che a tutti gli effetti comincia la sua guerra, curiosamente parallela a quella di tanti altri suoi coetanei costretti a partire per il Vietnam (la mattanza asiatica a lui non toccò, ne fu esentato per un banale difetto di costituzione). È l’anno 1966, i Beach Boys cantano Good Vibrations e il nostro valente giovane fa stampare migliaia di biglietti da visita con scritto “Donald J. Trump, immobiliarista”.
Da quel biglietto da visita, di fatto, è cambiato tutto. Non solo per lui, anche per il mondo.