Libero, 28 novembre 2024
Il silenzio di Rossini fu causato dalla gonorrea?
Che Wikipedia fornisca informazioni lacunose sulla biografia di Gioachino Rossini (1792-1868) è comprensibile, poiché essendo un’enciclopedia che può essere redatta da chiunque, non sempre si può pretendere che quel qualcuno sia Diderot o D’Alembert. Risulta già più antipatico che nella sterminata bibliografia su Rossini, a fronte di pochi libri che raccontano con criterio il famoso «silenzio rossiniano» – ovvero la decisione del compositore, ad appena 37 anni e dopo la creazione del Guillaume Tell, di non scrivere più per il teatro, dopo 23 anni di forsennata creatività elargita in 40 opere – la maggioranza dei volumi dia per assodato che la causa primigenia del silenzio in questione fosse la malattia mentale, la sindrome maniaco-depressiva e ciclotimica.
Quel che va chiarito è che la depressione di Rossini, le crisi di pianto e gli sbalzi di umore riferiti da più testimoni, avessero un’altra motivazione precipua: il musicista, che da giovinetto si sollazzava tra una gonnella e l’altra, ebbe la sventura, in una dei suoi banchettamenti sul desco di Venere, di abbassare la gonnella sbagliata, contraendone la gonorrea, malattia a trasmissione sessuale che all’epoca era un bel guaio. La cura del malanno prevedeva, ai tempi, dei preparati aleatori che contemplavano, quale principio fondamentale, l’esiziale mercurio, foriero di effetti tossici su tutto il corpo.
Gonorrea cronica ingravescente dunque, contratta in giovane età e che lo martoriò, in un crescendo che non poteva che essere rossiniano, fino all’ultimo dei giorni. Può creare impaccio il contrasto tra la leggiadria incomparabile della musica di Rossini e le terribili vessazioni che dovette subire il suo organismo – tra debilitanti diarree, calvizie e caduta di denti in giovane età, cateteri in vescica, aggressione delle sanguisughe, perdita del sonno e dell’appetito e altri ghiribizzi che la sorte malestrua intese riservargli – però le cose vanno riferite (per citare un collega di Rossini) senza far tacere il labbro, altrimenti si continua col venticello della calunnia (questa sì citazione rossiniana!), consegnando ai posteri l’immagine di un genio squilibrato, mentre i suoi squilibri umorali erano una conseguenza delle sfiancanti pene del suo fisico.
LA RICOSTRUZIONE
Va premiato lo sforzo di Luciano Fonzi, già professore ordinario di Anatomia umana, nonché cultore inveterato delle meraviglie del Pesarese, nel fornire col volume L’esistenza autentica di Gioachino Rossini. Tra verità ignorate nascoste (Metauro Edizioni, pagg.154, euro 19) una narrazione coi crismi della scientificità, che restituisce l’integrità e la dignità dell’uomo Rossini, quello vero, come da sottotitolo. L’obiettivo può apparire un tantino pretenzioso, difatti Sergio Ragni, patrocinatore della Casa-museo Rossini e autore di una delle due prefazioni (l’altra prefazione è di Gianfranco Mariotti, fondatore e presidente onorario del Rossini Opera Festival), scherzosamente fa finta di rimproverarlo. In realtà l’autore si mostra umile perché prima di scrivere si informa nel dettaglio sulle fonti, riferendo sia la lettera, che funge da documento anamnestico-diagnostico sulla salute di Rossini, che un medico bolognese scrisse a un urologo francese per un consulto sul caso del paziente illustre, sia passaggi epistolari, dai quali si evince la sofferenza del compositore e la consapevolezza di quanto gli stava accadendo («un abbraccio all’amico Martelli e ditegli che moderi l’ebrezza quando vede una signorina e il lamento quando mercurio si fa sentire…», scriveva il venticinquenne Gioachino).
Il libro di Fonzi smentisce i luoghi comuni fasulli sul silenzio rossiniano, stanti i quali il Pesarese dopo l’abbandono della lirica avrebbe pure abbandonato la musica: Rossini invece continuò eccome, con molte composizioni, alcune delle quali nei titoli ammiccavano alla salute cagionevole (si pensi a Prélude convulsif e a Diarrehée au piano), mentre altre mostravano attenzione ai fenomeni politici (Himne à Napoleon III et à son vaillant peuple) e un sincero afflato sacrale, come la Petite Messe Solenne, nella cui dedica si descriveva agli occhi di Dio come un compositore modesto «nato per l’Opera Buffa. Poca scienza (musicale) e un po’ di cuore, tutto qua», premurandosi di aggiungere che «questa mia piccola composizione è l’ultimo peccato mortale della mia vecchiaia».
Non mancano i riferimenti al quadro storico in cui crebbe Rossini, con un padre giacobino che visse pure la carcerazione per l’eccessivo entusiasmo nei confronti di Napoleone, e che al Nostro trasmise il giacobinismo solo da ragazzo, visto che poi nella maturità Rossini si accasò sulla sponda restauratrice, benché rivendicasse un’attenzione al tema della libertà (non convincendo però i mazziniani, i quali lo accusavano di essere poco risorgimentale, e dando adito a sospetti di opportunismo, come quando scrisse l’Inno all’Indipendenza per Murat per poi offrire, forse, il medesimo inno a un generale austriaco). Non manca una ricognizione su quel che i grandi pensavano di Rossini, da Balzac che nella Comédie cita con ammirazione il Mosé in Egitto, a Schopenauer che, ritenendo la musica la più importante delle arti, gradiva il fatto che nelle opere di Rossini la melodia surclassasse le parole; da Nietzsche che nell’Opera italiana, segnatamente in quella di Rossini, vedeva «la leggerezza pervasa di profondità, come nella musica dei Greci», a Leopardi che, nello Zibaldone, asseriva che i suoni di Rossini riscuotessero così successo perché «si accostano a quelle successioni di tuoni alle quali il popolo è assuefatto».
E la vexata quaestio riguardo alla vera patria di Rossini, ovvero se fosse la patria originis Pesaro, dove è nato, oppure Lugo dove nacque il padre? Ci pensò Rossini stesso a risolverla, definendosi «cigno di Pesaro e cignale di Lugo». Perché al di là delle sofferenze fisiche lo spirito buffo rimase bello che integro.