Libero, 28 novembre 2024
La polizia politica tra fascismo e Repubblica
La polizia politica ha attraversato tutta la parabola del fascismo e, esaurito il ciclo storico, si è riproposta riveduta e corretta agli albori dell’epoca repubblicana, come nulla fosse, nel segno della continuità istituzionale: fascetti, stellette, demilitarizzazione. Inganno di Stato. Intrighi e tradimenti della polizia politica tra fascismo e Repubblica (Einaudi, 2024, pp. 372, euro 22) di Giorgio Boatti è un saggio pieno di motivi di interesse e urticante allo stesso tempo, le cui trame sono straordinariamente sintetizzate nel disegno di copertina di Marco Pennisi: una ragnatela che dal centro della “I” di Italia si irraggia e si àncora alle estremità. E sono tanti i fili che si dipanano nella struttura del racconto di Boatti, innervato anche da ricordi ed esperienze personali, attraverso personalità di primo e secondo piano che questa storia a tinte scure l’hanno scritta e sceneggiata come carnefici e come vittime.
Il volume è dedicato all’indimenticato storico Claudio Pavone (1920-2016) e proprio da lui si apre l’analisi dettagliata dell’autore, da un episodio nella Roma occupata dai nazisti. Pavone è un ex ufficiale di complemento, già acceso di passione politica per cambiare le cose; perché le cose cambieranno anche se adesso non si travede ancora come. Ha con sé in una borsa volantini socialisti e copie dell’Avanti!, ma anche un libro di salmi.
Ha appena gettato un po’ di ciclostilati di propaganda dentro un’auto nera col finestrino aperto, quando sente passi dietro di sé e comprende che sono due agenti di polizia in borghese. Viene preso e riportato verso l’auto nera, senza una parola. Chi sia il proprietario lo scopre pochi secondi dopo: Guido Leto, ex capo dell’Ovra, adesso vice capo della polizia della Repubblica sociale, uomo colto e intelligentissimo. Il commendatore ordina di portare Pavone in commissariato, e aggiunge che se tenta di fuggire gli devono sparare. Il poliziotto risponde senza un momento di titubanza: «Ho già il colpo in canna». È il 22 ottobre 1943, Pavone finisce a Regina Coeli. Ma questa storia inizia nel 1928, sei anni dopo che Vittorio Emanuele III ha incaricato Benito Mussolini di guidare le sorti dell’Italia, avviata a grandi passi verso la dittatura. Il 12 aprile 1928 una bomba che sarebbe dovuta esplodere al passaggio del Re per inaugurare la Fiera campionaria di Milano provoca 14 morti e una quarantina di feriti. È uno choc. A Milano arrivano da Roma gli agenti della Direzione degli affari generali e riservati (Dagr), di cui fa parte Guido Leto, per assumere il controllo delle indagini. Accadrà lo stesso nel 1969, per la strage di piazza Fontana, con la differenza che la seconda volta, in epoca repubblicana, nessuno ne saprà nulla. Alla Dagr, due anni dopo, Mussolini darà il nome di Ovra, che non significa nulla ma ha un suono inquietante, e che si occupi di repressione dell’antifascismo è scontato.
È lo strumento del regime a tutela di sé stesso e delle istituzioni di cui è ossatura.
IL COMPLOTTO
La Polizia è agli ordini di uno specialista, Arturo Bocchini, che la terrà in pugno fino alla morte, nel 1940, quando andrà nelle mani di Carmine Senise, esautorato da Mussolini nel 1943, che diventerà uno degli artefici del complotto che porterà all’arresto del Duce, per poi riassumere il comando scalzando il gerarca Renzo Cherici.
Sarà risucchiato dagli avvenimenti dell’8 settembre e dalla liberazione di Mussolini da Campo Imperatore, quando lui stesso in un enigmatico telegramma fece intendere che in caso di colpo di mano tedesco non dovesse essere ucciso come da ordini precedenti di Badoglio: «Massima prudenza» fu facilmente interpretato di lasciare che i paracadutisti del maggiore Harald Mors potevano prenderselo e farne quel che Hitler voleva. D’altronde l’Ovra, sciolta dopo il 25 luglio, aveva perso la sigla ma non aveva cambiato la pelle. La polizia politica guidata da Leto era rimasta con gli stessi quadri a lavorare per Badoglio. Senise finirà in un lager, poi prigioniero di lusso, e tornerà in Italia autoscudandosi di essere stato non al servizio del potere ma delle istituzioni. Non sarà il solo e neppure il più compromesso.
Dei tanti profili tratteggiati e approfonditi da Boatti, con i consueti stile e acume che rendono il saggio un efficace affresco di un’epoca, fa da leitmotiv proprio Leto, in contrappunto a una serie di figure nobili dell’antifascismo in un drammatico gioco di guardie e ladri in chiave politica. Durante il ventennio la repressione fu implacabile e scientifica, rozza e raffinata allo stesso tempo; gioco di specchi e di ombre, di inganni e tradimenti, manette e regalie, carcere e bella vita, nobiltà e bassezze, con Carlo Del Re “traditore perfetto”, l’investigatore-inquisitore Francesco Nudi, il doppiogiochista sul filo del rasoio Ugo Osteria, l’astuzia di Leto nel salvare l’archivio compromettente dell’Ovra e premunirsi per il “dopo”, nel tempo delle giravolte e dei colpi di spugna e pure della polizia politica che risorge dalle sue ceneri assieme ai suoi protagonisti. Il fascismo come autobiografia di una nazione non è solo una felice coniazione linguistica di Pietro Gobetti, ma una chiave di lettura imprescindibile della nostra storia che vale anche e soprattutto in un presente in cui si delira con superficialità e pressapochismo di “fascismi”. Perché i gattopardismi sono emblematici sotto il sole d’Italia, ma come ammoniva il chimico e fisico Antoine-Laurent Lavoisier nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Anche l’«Inganno di Stato», come ben descrive e spiega Boatti risalendo con maestria i fili della ragnatela.