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 2024  novembre 28 Giovedì calendario

Julio Velasco dice che le donne sono più brave degli uomini

Un oro olimpico non si scorda mai. Eppure bisognerà rimuoverlo: «Per vincere ancora si deve dimenticare di aver vinto», è il compito che Julio Velasco affida alle ragazze del volley azzurro, al termine di un 2024 che è stato il migliore di sempre: l’oro ai Giochi di Parigi e la vittoria in Nations League. Ci voleva il Divo Julio, l’argentino che è anche italiano ormai da 40 anni: ha guarito l’Italia in crisi e l’ha portata sul tetto del mondo. Ora Julio si gode il riposo del guerriero, anzi del generale. Tra qualche mese si ricomincia, per puntare ai Mondiali in Thailandia. 
Julio, ma lei cosa fa quando non ha niente da fare?
«Fare niente è ben difficile... La vita del ct del volley è molto particolare: da fine marzo siamo in ballo per sei mesi, in una full immersion in cui si scompare letteralmente da casa e dalla vita di tutti i giorni. Così nel periodo di riposo si curano le cose personali, la famiglia, io poi tengo conferenze e lezioni nelle aziende. In più studio e mi aggiorno su tattiche e metodologie di allenamento, è pieno di libri al riguardo. E ovviamente seguo tutte le partite di club delle ragazze della Nazionale. Poco volley maschile, sia perché non vedo grandi novità sia perché devo concentrarmi su quello femminile».
Lei ha 72 anni ed è un mito della pallavolo e dello sport mondiale: le giocatrici le danno del lei?
«Ma per carità! Mi chiamano Julio, preferisco così. Tempo fa una ragazzina mi ha dato del lei, e le ho detto “Se lo fai ancora ti escludo dalla squadra...”. Mi danno del tu e mi fa sentire giovane».
Come ci si sente dopo un’annata così perfetta?
«Molto gratificato, è stato un anno straordinario, mi sono trovato molto bene con le ragazze e lo staff. Mi piace lavorare con le donne, sarà che sono padre e nonno di femmine e difendo il sesso femminile dai luoghi comuni. A volte ancora qualche allenatore mi dice “le donne non capiscono...” e io “ma con chi vivi tu? Tutte le donne che conosco capiscono benissimo ogni cosa, e più di me”. Dire che le donne non capiscono è una bestemmia della ragione. Poi sulle differenze tra i sessi c’è tutto un discorso culturale molto lungo, che ho già fatto in passato. Le donne vengono da millenni di condizione di inferiorità, solo negli ultimi decenni hanno cominciato a uscirne. Il percorso è ancora lungo ma intanto parecchie cose sono cambiate».
Come si ricarica una squadra che ha vinto tutto?
«Continuare a vincere è molto difficile, lo so perché ci furono problemi dopo il Mondiale 1990 che vincemmo con gli uomini, e anche di recente con la Nazionale di De Giorgi. È un meccanismo mentale che ancora non conosciamo bene, però qualcosa accade. Ci si allena allo stesso modo, non si è presuntuosi, ma poi ripetersi è arduo. Forse è l’obbligo di vincere, che pesa come una condanna. Con la gente che si stupisce: ma come, avete vinto e ora non rivincete? È bestiale. Meno male che Dante è morto, sennò gli direbbero: bella la Divina Commedia, ma possibile che adesso non scrivi un’altra cosa, magari migliore? Mi preoccupano, questi meccanismi che provocano pressione insostenibile. L’unico modo per uscirne è immaginare di aver perso, convincersene. E continuare a imparare dagli altri, quelli che abbiamo battuto; è quello che fai quando perdi davvero. Sarebbe un errore imperdonabile avere la presunzione di non imparare dagli avversari. Se non faremo bene tutto questo, non ci confermeremo».
Lei adotta anche il metodo di Socrate: domande, più che risposte.
«Lo studiavo all’università e mi affascinava: incalzare l’interlocutore per provocare il suo processo creativo. Lo faceva con tutti, pure con lo schiavo. Per questo condannarono a morte Socrate, perché far filosofare lo schiavo era un’eresia per quei tempi, e dissero che corrompeva i giovani. Con i giocatori, spesso la comunicazione è univoca: parliamo, spieghiamo e critichiamo solo noi tecnici. Allora attraverso le domande cerco di far pensare. Alla fine una cosa è chiara: noi allenatori non facciamo NIENTE, al limite facciamo fare ai giocatori. Se non ci riusciamo, abbiamo fallito. Bisogna aiutarli a saper prendere decisioni e a gestire i momenti difficili, quella è la chiave. È inutile che noi siamo bravi a gestire le situazioni complicate se non lo sanno fare loro. Prima di correggere le giocatrici chiedo: trova una soluzione, ma non gliela dico, e spesso la trovano. Gli atleti di alto livello e i giovani sono intelligenti. A volte addormentiamo l’intelligenza dando solo noi le risposte. Svegliarla, si deve. Noi allenatori, lo ricordo sempre, siamo soprattutto insegnanti».
E lodiamoli dunque, che se lo meritano, questi nostri giovani.
«Ma certo, sono bravissimi. Io li difendo contro i vecchi, però gli dico pure di saper imparare dall’esperienza dei più anziani. Anche tra generazioni ci deve essere gioco di squadra. I vecchi criticano il presente per nostalgia di quando erano giovani, per carità, li capisco. Ma ogni epoca ha le sue rogne. La mia generazione era giovane negli anni ’60 e li ha mitizzati, ma non è che fosse tutto così meraviglioso: uccisero due Kennedy, Martin Luther King e Malcolm X, c’era la guerra in Vietnam, l’apartheid, la crisi missilistica a Cuba. Cose che se accadessero adesso, in America la gente non uscirebbe neppure a comprare il pane... Invece noi preferiamo ricordare i Beatles, l’amore libero, il Maggio Francese, il rock’n’roll, la voglia di cambiare tutto. Oggi è un altro mondo ma non possiamo darne la colpa ai giovani, mica l’hanno creato loro. E in questa epoca ci sono anche cose straordinarie come Internet, l’avessi avuto ai miei tempi di studente... e la medicina ha fatto progressi enormi. Anche se alcune cose procedono a ritmo disumano».
Il volley femminile ha ormai lo stesso pubblico di quello maschile, o di più.
«C’è stato un cambiamento culturale enorme. Le ragazzine una volta andavano a vedere le partite dei maschi, adesso quelle delle donne. Negli ultimi anni il volley femminile ha fatto un grande salto sul piano atletico e motorio, ormai nei settori giovanili le ragazze sono brave almeno quanto i ragazzi, e sono sportive vere, una volta invece magari le mamme le frenavano, gli dicevano di non fare “cose da maschi”. E a differenza di calcio o basket, la pallavolo delle donne non è una versione più lenta di quella maschile: c’è meno potenza nelle schiacciate quindi più difesa, il che piace molto perché gli scambi sono più lunghi, e tecnica eccellente».
Perché secondo lei calcio e basket femminili sembrano meno divertenti? Questione anche di misure del campo? Nel volley la rete per le donne è più bassa.
«Calcio e basket femminile non hanno caratteristiche femminili che li rendano più attraenti della disciplina al maschile. Le calciatrici sono sempre più brave, ma le differenze sono ancora evidenti. E sì, vedendo calcio femminile ho avuto la sensazione che il campo sia troppo grande, mentre nel basket forse bisognerebbe abbassare il canestro: è dura per una donna schiacciare a 3.05».
Nel calcio, la tecnologia non piace a tutti.
«Nel volley è stata fondamentale: ha cancellato le discussioni infinite e certi furti clamorosi. Nel calcio il Var ha diminuito il gioco violento, ed è già una conquista, mentre ascolto molte lamentele ma mi sembrano le solite polemiche per creare pressione sugli arbitri, spesso da parte degli allenatori. Del resto gli allenatori sono sempre i più conservatori, in ogni sport. Nel volley il 95% dei tecnici era contrario all’abolizione del cambio palla, e aveva torto marcio: il “rally point” ha migliorato il gioco. Gli allenatori, temono ogni mutamento: se ho fatto sempre così, perché devo cambiare? È il risveglio delle insicurezze».
L’allenatore deve solo insegnare, o è necessario che vinca?
«A livello giovanile è importante migliorare i giocatori a livello tecnico e culturale. Poi ogni sport è un gioco, ed è necessario che qualcuno vinca, altrimenti è una noia mortale. Anche a tressette, anche a nascondino, in ogni gioco, la vittoria e la sconfitta non sono affatto secondarie. L’importante è che non creino isteria. L’amore è una cosa bellissima, ma poi esistono anche gli stalker... Poi sento allenatori che non vincono però “formano i giocatori”... Ma qualche partita bisognerà pur vincerla, sennò che lavoro hai fatto? Nelle squadre professionistiche poi il risultato è fondamentale, in fondo ci chiamano per quello, quindi bisogna essere pragmatici. E vincenti».
Nel calcio si distingue anche tra allenatori che giocano bene e che giocano male.
«Il calcio non ha mai modificato le sue regole, per le quali si può vincere una partita anche giocando male, cioè difendendosi e basta, segnando un gol fortunoso. A volley, basket o tennis è chiaramente impossibile giocare male e vincere, per le caratteristiche del gioco in cui non ci si può solo difendere, infatti non c’è mai la discussione sulla qualità del gioco stesso. Il calcio potrebbe fare modifiche per arrivare a far vincere chi gioca meglio. Io non sono tifoso, lo sono soltanto del mio Estudiantes, ma anche se il calcio mi piace tanto, ormai tendo a vedere solo gli highlights della Champions. Le partite sono noiose: gran possesso palla, poi arrivano in area avversaria, poi non c’è spazio e tornano indietro fino al portiere... che spettacolo è?».
A Parigi la vedevamo spesso seguire la partita da fondo campo, alle spalle della squadra. Perché?
«Per vedere meglio il rapporto tra muro e difesa, che è sempre la cosa più delicata e più difficile da sistemare».
A noi ricordava un altro Julio, che si chiamava Cesare ed era onusto di gloria, ma guidava ancora le sue truppe ai trionfi sul mondo...«Ahah, questa è bella. Ma non esageriamo, meglio volare basso». E convincersi di aver perso, pur avendo vinto tutto. Un’impresa da filosofi.