il Giornale, 28 novembre 2024
Il tradimento dei chierici che non friggono patatine
Non voglio esprimere alcun giudizio sul risultato delle elezioni americane. Ma, anche dopo avere appreso il risultato (secondo me molto più scontato di quanto i sondaggisti volessero far pensare), un’immagine domina in me: quella di un mondo spaccato in due, con poca comunicazione tra una parte e l’altra. Un mondo dove, però, gli intellettuali e gli artisti – ossia i narratori e gli interpreti del mondo, coloro che dovrebbero avere il compito di raccontarci ossia di rendere giustizia (tale è infatti il racconto, un atto di giustizia) tutto il mondo – stanno per la quasi totalità da una parte sola.
Nel 1927, ossia quasi cent’anni fa – prepariamoci all’anniversario, ci sarà da ridere – Julien Benda scrisse un celeberrimo pamphlet dal titolo che è diventato un proverbio: Il tradimento dei chierici (La trahison des clercs) nel quale denunciava la débâcle della classe intellettuale e accademica al cospetto di un potere forte come poteva essere, al tempo, quello fascista in Italia.
Da allora molte cose sono cambiate. L’esperienza traumatica della guerra portò senza dubbio a una coscienza molto più netta del ruolo di artisti e intellettuali, che ebbero una parte fortemente critica dinanzi al sorgere della cosiddetta cultura di massa. E a me sembra che questa posizione di vigilanza si sia mantenuta per molti anni, grazie anche a quelle correnti cosiddette alternative che assunsero a loro volta proporzioni di massa, come nella cultura pop e beat, arte letteratura e cinema, e in fenomeni musicali come il rock anni ’60-70.
Si tratta naturalmente di una storia molto complessa, che conosce enormi differenze da Paese a Paese. Solo sul caso italiano sono state scritte intere biblioteche. La fase in cui ci troviamo oggi è però particolare e merita la nostra attenzione. Quasi ovunque, nel mondo occidentale, intellettuali e artisti si pongono a difesa dei valori fondanti la nostra civile convivenza, primo fra tutti la Democrazia così com’è descritta nelle diverse carte costituzionali.
Questo non significa che al suo interno il mondo intellettuale sia del tutto solidale, che certi valori siano accettati alla stregua di altri (un esempio, chi si dichiara cattolico in certi Paesi ha qualche problema in più, e chi nega questo è in malafede). Lo dico perché certe fratture, per quanto piccole, finiscono per generare non differenze – il che sarebbe auspicabile – ma piuttosto un’ulteriore omologazione, come ben racconta Proust nella sua pagina memorabile sul salotto dei Verdurin, dove tutti erano ammessi a patto che condividessero tre o quattro precetti apparentemente innocui.
Tutto questo è normale, e a dire queste cose non è certo un intellettuale emarginato o discriminato. Posso scrivere su quotidiani nazionali, partecipo a rassegne e festival, i miei libri vengono solitamente pubblicati da importanti editori: una sorte che non è capitata a persone probabilmente molto migliori di me.
Resta però un fastidio, come di una responsabilità non assunta fino in fondo, da me come da tanti altri se non tutti. L’immagine che più mi ha dato da pensare, durante la campagna elettorale americana, è stata quella di Trump che friggeva patatine da McDonald’s. Ecco, mi sono detto: con questa azione Trump sta raccontando un mondo che non ha altri narratori. E non importa quanto sia becera, finta e sciocca l’immagine di un newyorkese (mai dimenticarlo: Trump è di NY, non del Nebraska o del Kentucky) ricco dalla nascita che frigge patatine da Mac.
E non faccio fatica a pensare che milioni di persone si siano sentite rappresentate da quell’immagine, che significa (anche se non è vero): «uno come noi».
Non parlo di verità, ma di narrazione.
È possibile, certo, che uno scrittore racconti la storia di un giovane che frigge patatine da McDonald’s, ma è difficile che un testo simile possa essere esente da un tono critico, di denuncia: il giovane del romanzo vive una condizione ingiusta, ha dei sogni, forse vuole diventare un artista, o uno scienziato, e forse lo diventerà (versione ottimista) o forse no (versione cupa), ma al momento è lì che frigge, e questo non va bene; si raccontano storie simili col sottotesto che così non va bene, che bisogna in qualche modo uscirne.
C’è la dimensione etica ma manca una dimensione epica, che invece Trump nel suo gesto aveva ben presente: lui friggeva patatine a nome dei milioni di persone, in gran parte giovani e stranieri, che fanno mestieri simili e di cui una piccola parte avrà fortuna mentre per la maggior parte tutta la vita sarà, in un modo o nell’altro, un frigger patatine.
Il mio è solo un esempio per dire come le circostanze storiche possano generare molte versioni differenti di quel lontano «tradimento dei chierici» così ben descritto un secolo fa: perché la storia si ripete, questo sì, ma non sempre nel modo che noi immaginiamo, ed essere un buon intellettuale significa essere pronto ad accettare e imparare quello che non si era potuto immaginare, quello che non si era visto arrivare.
Io vedo davanti a me un mondo di uomini, donne, lavoro, gioie, dolori, drammi, errori che ha a sua disposizione migliaia di narratori e di interpreti; e un altro mondo di uomini, donne, lavoro, gioie, dolori, drammi, errori che non ha interpreti, non ha narratori ma soltanto giudici.
Molti di loro abbracciano il populismo becero, odiano la democrazia partecipativa, non si fidano più di chi cura le loro malattie o li trasporta da una città all’altra o da un quartiere all’altro, e per la maggior parte sono gente povera, che fatica a vivere ed è sola, e non sa cosa pensare, cosa desiderare, perché sta male. I narratori di questa gente sono politici e politicanti bravi spesso a soffiare sul fuoco, ma nessun intellettuale, o quasi, nessuno capace di trarre dal loro disagio, dal loro rancore, il racconto che esso trattiene in sé. Nulla ci rende feroci come il non avere una storia, come dover trattenere le nostre verità nella bocca dello stomaco, come un grumo indecifrabile.
Questo mondo senza narratori però è il prodotto dello stesso sistema che produce scrittori e artisti, giornalisti e registi. I mondi sono due, ma il ciclo produttivo è uno. La globalizzazione ha facilitato la comprensione di questa scomoda ma evidente verità, già presente – mi dispiace – nelle categorie del pensiero marxista. Come dire che lo stesso ciclo che produce friggitori di patatine produce anche narratori incapaci di occuparsi di loro con un racconto onesto.
Esiste un modo per uscire da questo circolo molto vizioso? Non ne ho idea. Ma l’uscita, se c’è, non avverrà per vie naturali, per un cammino evolutivo, per una lenta maturazione. Ci vorrà un ribaltamento, qualcosa che vada apparentemente contro il buon senso, ci vorrà la scelta di dirigersi verso una direzione che potrebbe apparire talvolta assurda anche a chi la percorre. Bisognerà andare contro le proprie opinioni, e avere il coraggio estremo di mettersi non solo contro un politico odioso o un governo criminale, ma anche contro il sistema che ci protegge, contro tutti i Verdurin che forse ci amano ma non smettono di tenerci d’occhio