La Stampa, 28 novembre 2024
La calciatrice libanese in coma dopo un attacco israeliano
C’è un lenzuolo al campo dove si allena Celine Haidar, a Beirut e sopra c’è la sua faccia: è enorme, stirato, colorato. La gigantografia di una ragazza che si ispira a Ronaldo e Messi, a entrambi, i contrasti si fanno lievi a certe distanze. Lei è diventata punto di riferimento nel momento in cui ha chiuso gli occhi. Nell’attesa che li riapra.Celine Haidar è una calciatrice libanese, in questi giorni avrebbe dovuto giocare la West Asian Cup under 19 invece sta in un letto d’ospedale, in coma indotto dopo l’operazione alla testa di dieci giorni fa. Ferita in un attacco israeliano a Chiyah, a sud di Beirut. L’hanno data per morta e il suo nome ha girato per i social, impugnato per chiedere vendette. Lei desiderava altro. Stava per debuttare precocemente tra le senior: l’avevano chiamata per un paio di allenamenti perché si era fatta notare, ma la guerra le ha tolto il primo raduno, previsto in ottobre, in preparazione di un ciclo di partite che non si sono mai giocate. Haidar ha vinto la West Asian Cup U18 un anno fa, centrocampista «il cervello della squadra», ruolo che l’ha resa popolare nella sua comunità. Da subito un modello per le altre ragazze, immediatamente simbolo di indipendenza per le tifose mediorientali. Ne sembra consapevole nei video postati in cui racconta le partite e mostra i tatuaggi.Ora è ferma, immobile, eppure anima le emozioni di un’area in subbuglio, agita le legittime istanze dei palestinesi che si sentono dimenticati, rappresenta i tanti sportivi deceduti in questo conflitto pure se lei è viva e nessuno sa come sta. I medici dicono che è impossibile capire i danni dell’emorragia, per farlo bisognerebbe svegliarla dal coma ma le condizioni sono troppo critiche. Ogni giorno in quello stato la rende più debole e rafforza la voce di chi prega per lei, per tutto quello che, suo malgrado, oggi rappresenta.I poster sono passati dal campo alla strada, alla città. È partita una raccolta fondi per un eventuale trasferimento all’estero, in un posto dove sostenere la riabilitazioni. Il suo nome ormai racconta più di lei, si porta dietro le voci di ragazze che sognavano di essere lei e pure dei cari di chi è deceduto in attacchi come quello che è capitato a lei. Calciatori uccisi come Eyad Abu-Khater e Hisham Al-Thaltini, morti negli stessi giorni in cui Haidar è stata colpita, due dei tanti atleti stroncati dalla guerra, più di 340 secondo calcoli complicati da aggiornare.Il profilo di Celine Haidar compare nelle curve e si oppone a certe scelte drastiche, circola nei post di chi protesta contro il divieto di esporre bandiere palestinesi, viene ripetuto e rilanciato insieme alle richieste per avere notizie sulle sue condizioni. Sempre le stesse: senza aggiornamenti ufficiali dell’ospedale o della nazionale libanese dall’ultima operazione. Haidar resta in quel letto ed è sempre più nota per i motivi sbagliati, per essere altro da sé. Una bandiera, una icona prima di aver avuto l’opportunità di far conoscere la sua storia, di costruirla, di trovare una esultanza che la rendesse evidente al pubblico, di avere il brivido di entrare in prima squadra, di partecipare al torneo giovanile in corso e magari rivincerlo, con un anno di più destinata a salire di categoria e a capire se le piace Messi o Ronaldo o forse a superare entrambi per una carriera in proprio che ora sembra lontanissima. Schiacciata da questa fama crudele che lei non può nemmeno vedere