La Stampa, 28 novembre 2024
Biografia di Massimo Fini
Sul tavolo dello studio di Massimo Fini ci sono otto accendini, tre pacchetti di Gauloises e un bicchiere di vino bianco. In terra, centinaia di articoli straripano da una dozzina di cartelle. Su una c’è scritto «Russia», su un’altra «Intelligenza artificiale», su un’altra ancora «Ponte sullo Stretto». «Mi aiuta ad archiviarle il mio assistente», racconta mentre si siede, spiegando che oggi, con la cecità incombente, è proprio grazie al suo assistente che continua a scrivere, dettando.
Ha sempre pensato di fare il giornalista?
«No. A cinque anni volevo essere un tranviere. Su un bambino come me, nato sulle montagne sopra Como, il tram di Milano ha avuto da subito un grande fascino. In fondo, è uno dei pochi mezzi che funzionano davvero in città».
A scuola come andava?
«Malissimo. Un anno fui rimandato a settembre in cinque materie: un record. E venni sospeso non so quante volte».
La più clamorosa?
«Dopo che ero passato dal liceo Berchet al Carducci di Milano, una mattina tornai nella mia vecchia scuola, facendo credere all’insegnante, arrivata da poco, di essere ancora iscritto lì. Ebbi la faccia tosta di farmi interrogare, poi salutai tutti e uscii. Successe un casino. A chi mi aveva spalleggiato diedero quattro giorni. Il mio nuovo preside, invece, voleva darmene solo due. Ne pretesi altrettanti, altrimenti avrei perso la faccia».
Al Carducci era compagno di banco di Claudio Martelli.
«L’uomo più cinico che abbia conosciuto, ma lo capii solo molto tempo dopo. Mi portava alle feste, gli piaceva corteggiare le compagne, anche se in quegli anni non si combinava niente: era “tutta roba senza risultato”, come cantava Jannacci».
La passione per il poker nacque allora?
«Poco dopo, all’università. Giocavo con l’alta borghesia di Milano: dei polli, li pelai tutti. Incrociai pure Raul Gardini. A pensarci oggi, da come stava al tavolo si sarebbe potuto capire perché avrebbe perso tutto: non accettava l’idea che un altro potesse avere un punto più alto di lui».
Quando iniziò col giornalismo?
«Dopo la laurea in Legge, feci il concorso da magistrato. Scoprii che era truccato. Bussai a diversi giornali per raccontarlo ma non ne cavai granché, fino a quando non arrivai all’Avanti».
Lì la ascoltarono?
«A capo della redazione di Milano c’era Ugo Intini: una grande persona, tra i pochi socialisti della sua generazione a non aver rubato. Mi disse: “Ci interessa ma non abbiamo gente, scrivilo tu”. Il pezzo gli piacque ed entrai».
Che aria tirava?
«Quella di un socialismo libertario: il vicecapocronista era comunista, il dimafonista era iscritto all’Msi. Fu il giornale a cui restai più legato».
Due anni dopo, nel ’72, passò all’Europeo come inviato. C’era anche Oriana Fallaci.
«Come persona era detestabile. Per un articolo che pubblicai sul Giorno, in cui parlavo bene del suo talento e malissimo del suo carattere, mi querelò chiedendomi 3 miliardi: al processo vennero fuori cose imbarazzanti».
Ad esempio?
«Una volta tornò da un viaggio a Teheran con dei tappeti che furono bloccati in dogana. Mandò una delle segretarie dell’Europeo, incinta, a cercare di riprenderli. La poveretta non ci riuscì e lei la aggredì. Era fatta così, ma le va dato atto che non era una che tramava alle spalle, non cercò mai di farmi fuori».
Quando, molto tempo dopo, tornò all’Europeo, conobbe Feltri, con cui all’inizio degli anni Novanta andò all’Indipendente.
«In pochi mesi il giornale passò da meno di 20mila a più di 100mila copie. Vittorio è stato il migliore direttore non solo della sua generazione ma anche di alcune precedenti».
Come visse il suo passaggio al Giornale di Berlusconi, nel ’94?
«Come un tradimento. Se non se ne fosse andato, l’Indipendente sarebbe potuto diventare la Repubblica degli anni Novanta, invece senza di lui capitombolò».
A un certo punto anche lei pensò di seguirlo al Giornale.
«Dopo che mi accordai con Feltri, incontrai l’amministratore, che mi sfinì con un pippone sulla strategia editoriale. Cercai di sviare, gli chiesi per quale squadra tenesse. E lui: “Tifavo Juve. Ma siccome mi piace il bel calcio, ora sono milanista”. Tornai da Vittorio e gli dissi: “Io qui non vengo"».
Fu in quel periodo che conobbe Berlusconi?
«No, molto prima. Da ragazzini giocavamo nello stesso campo di calcio. Era alto come un soldo di cacio e non passava mai la palla. Insomma, era già Berlusconi».
Ha scritto che tra i colleghi ha avuto solo due amici: Giorgio Bocca e Walter Tobagi.
«Giorgio, per me, è stato il più grande giornalista del secondo ’900. Gli è sempre rimasto il complesso di essere figlio di una maestrina di scuola di Cuneo: guardava al denaro come a una concreta conferma del successo. Per questo lo lusingava essere invitato a cena dai Pirelli e per questo, anche se si annoiava a morte, ci andava».
E Tobagi?
«Riflessivo, prudente, con una gran capacità di mediazione: tutto il mio contrario. Lo conobbi quando era all’Avvenire, grazie a un caporedattore che era il più gran bestemmiatore che abbia mai incontrato».
Fu l’ultimo, a parte la moglie, a vederlo prima che venisse assassinato dai terroristi.
«Abitavamo vicini e, visto che non amava guidare, lo accompagnai in auto. Restammo a chiacchierare fino alle due di notte. Quando, la mattina dopo, fui informato della sua morte, notai davanti a casa sua due dei suoi colleghi del Corriere che più di altri avevano creato un clima d’odio intorno a lui. Piangevano senza ritegno. Una cosa disgustosa».
Cosa pensa dell’elezione di Trump?
«Ho scommesso e tifato per la sua vittoria. Prima di essere un politico, è un imprenditore. Come non gli è andato giù che gli americani spendessero un’infinità di miliardi in Afghanistan, così farà lo stesso per l’Ucraina: la guerra nel giro di qualche mese finirà».
E di Giorgia Meloni?
«Ogni tanto ci sentiamo e ci scriviamo. Non condivido la sua politica ma è una che si spende molto. E poi è diretta. Prenda Conte, per cui io – da protogrillino – dovrei tifare: parla da avvocaticchio. Lei invece no».
Ha un problema con la sua classe dirigente?
«Qualche ministro che si salva c’è. Ma quando mi ha invitato a trovarla a Palazzo Chigi, mi ha detto che non può fidarsi di nessuno».
Ha 81 anni. Che rapporto ha con il tempo che passa?
«Bruttissimo. L’invecchiamento, purtroppo, non è un’invenzione. Della morte ho una paura non fisica ma metafisica: tutto ciò che hai fatto e hai amato sparisce nel nulla».
Alcuni dicono che sia un tombeur de femme, altri invece che sia omosessuale.
«Nessuna delle due cose corrisponde alla realtà, ma in ognuna c’è un pizzico di verità».
Un desiderio?
«C’è una ragazza che con me per ora gioca come il gatto col topo. Spero mi dica di sì. Vediamo».