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 2024  novembre 28 Giovedì calendario

Generazione maranza, chi sono le bande che infiammano il Corvetto

«Il punto di ritrovo il sabato pomeriggio è davanti alla stazione Garibaldi. Ci sono quelli del Corvetto, della Bovisa, di San Siro, e altri come noi che vengono da fuori. Poi la sera ci si sposta in corso Como, in Duomo o a City Life». Abed e Hassan sono di Bollate. Fanno le scuole superiori e quasi ogni giorno vengono in piazza Gae Aulenti, ai piedi della torre tutta specchi di Unicredit, per incontrare i loro amici. «Ammazziamo il tempo, stiamo insieme», raccontano. Alla domanda su chi siano per loro i maranza rispondono senza troppi dubbi: «Sono ragazzi un po’ più grandi di noi, intorno ai 20 anni, che fanno sempre quello che gli passa per la mente. Sono quelli che magari se guardi la loro tipa ti spruzzano in faccia lo spray al peperoncino, o tirano fuori la lama. Qualcuno gira anche con il “ferro”, anche se noi non ne abbiamo mai visto uno».
A dar retta ad Abed e Hassan i maranza, termine con il quale in queste ore vengono etichettati anche i protagonisti delle proteste che stanno infiammando il Corvetto, non sarebbero poi molto diversi da quelli cantati da Fabio Rovazzi: «Un maranza con la tuta del Barça/che gira per Milano sopra un Sh/per la gente è un criminale/col borsello per le strade/ma se passa la locale, scappa/come un maranza».
Online il cliché è descritto fin nei minimi dettagli. Si parte dal look: un maranza indossa Nike Tn o Air Max, tute e t-shirt delle squadre di calcio, borsa a tracolla, passamontagna, in inverno piumino smanicato. Usa tantissimo i social, Instagram ma soprattutto Tik Tok, e ascolta rap, in particolare i sottogeneri trap e drill. Gli artisti più amati sono Simba La Rue, Baby Gang, ma pure Rondodasosa, Central Cee e Paky. Si muove con i mezzi pubblici, treni suburbani e metropolitana, oppure in sella a uno scooterone.
«Parlare di maranza al singolare non ha senso, i maranza si muovono sempre in gruppo, sono bande di ragazzini che nascono dopo il Covid per stare insieme - spiega lo scrittore Giovanni Robertini, che li ha scelti come protagonisti per il suo Morte di un trapper -. La loro estetica non è italiana ma europea ed è un’estetica low cost, neo-proletaria». Per quanto riguarda il background socio-economico, invece, si parla di immigrati di seconda generazione e di contesti familiari sfavorevoli. Qualcuno, facendo forse della psicologia spiccia, registra in particolare l’assenza di figure paterne.
L’altro aspetto ricorrente è la violenza: risse fra bande rivali, furti, rapine, spaccio. «La violenza non è un tratto caratteristico, ma c’è anche quella – continua Robertini -. Quello che sta succedendo al Corvetto era prevedibile. In una città sempre più divisa fra ricchi e poveri è normale che la rabbia possa esplodere e che si riversi contro le forze dell’ordine, l’alter più prossimo». «Se il sistema non è disposto ad accoglierti certe situazioni stagnanti emergono in modo estremo – rincara la dose John Nicolò Martin, urbanista e autore insieme al libraio anarchico Primo Moroni del celebre saggio sulle controculture milanesi La luna sotto casa -. In Lombardia accadde negli anni Cinquanta con la prima immigrazione dal Veneto, e poi con i meridionali. Chi viene da fuori ha una marcia in più che andrebbe incanalata nel modo migliore. In passato ci si riuscì». La stessa parola “maranza” ha una storia tutta sua. Trent’anni fa nel Nord Italia veniva utilizzata come sinonimo di “tamarro” (l’equivalente del romano “coatto”) per indicare in modo dispregiativo chi si vestiva in modo appariscente e ascoltava musica disco. A Milano, successivamente, è stata usata come sinonimo di “nordafricano” e “marocchino”, con una sfumatura più o meno razzista, mentre la sua fama più recente è legata ai social e poi ai media tradizionali che l’hanno rilanciata associandola ad alcuni fatti di cronaca: i maxi-raduni abusivi durante il lockdown e i disordini di Peschiera del Garda nell’estate 2022.
Fermarsi al cliché, però, serve a poco. «La tendenza a demonizzare i giovani dei quartieri periferici, i folk devil, esiste fin dal Rinascimento – racconta Alessandro Gerosa, docente di Sociologia culturale all’Università Statale di Milano -. È la logica della barbarie che minaccia il quieto vivere del centro civilizzato, un’operazione che serve a scatenare un’ondata di panico morale e a individuare un facile capro espiatorio». La pensa in modo simile Fabio Bertoni, ricercatore all’Instituto Ciências Sociais dell’Università di Lisbona e co-autore del saggio Le strade della teppa. «Parlare di maranza al Corvetto svia l’attenzione, relativizza un problema di violenza strutturale e altre questioni sociali che interrogano tutti noi – spiega –. Piuttosto è interessante come questi ragazzi si siano riappropriati del termine maranza trasformandolo in uno stile che restituisce le loro condizioni di vita. Il loro stile ruvido e crudo, che a volte sfocia nella microcriminalità, è il modo in cui esprimono la durezza delle loro vite». Per Marco Philopat, fondatore della casa editrice underground “Agenzia X” e profondo conoscitore delle periferie milanesi, c’è poi un tema di comunicazione fra generazioni. Per quello che è successo al Corvetto Philopat cita Amelia C., la diciassettenne che ha scritto un atto d’accusa contro gli adulti intitolato Vigliacchi: «Voi adulti non sapete ascoltare, non fate mai le domande giuste e quando parlate siete un mix fra il milanese imbruttito e Massimo Recalcati».