Corriere della Sera, 28 novembre 2024
Biografia di Fausto Taiten Guareschi
Alberto Guareschi, figlio di Giovannino, non sa dirmi se Fausto Taiten Guareschi sia suo parente: «Lo conosco da tanti anni, l’ho incontrato spesso nel monastero Fudenji, era istruttore di judo delle mie figlie. La nostra folta famiglia ha vari rami: i “Bazziga”, i “Columbarot”, i “Brinén”... Papà apparteneva al primo. Ignoro se esista una parentela con i Guareschi di Fausto Taiten». Neppure quest’ultimo lo sa, ma di sicuro è il più vicino al personaggio creato dallo scrittore: un don Camillo mancato. «Avvertivo il desiderio di farmi prete, solo che il proposito religioso prese altre strade», racconta l’uomo che 40 anni fa fondò a Salsomaggiore il tempio buddista.
Fausto Taiten Guareschi nel 1982 fu confermato, primo in Europa, erede del giapponese Narita Shuyu Roshi, monaco della scuola Zen Soto. Rappresenta l’83ª generazione che discende direttamente dal Buddha vissuto in India fra VI e V secolo avanti Cristo. Conserva i documenti storici originali che attestano la sequela a partire dal Duecento. Sono firmati con il sangue dei maestri che trasmisero il dharma (la legge) mischiato con quello dei discepoli che lo ricevettero.
Credevo che c’entrasse il Dalai Lama.
«Non ho niente in comune. Non amo il termine buddismo. Mi sento imparentato con la tradizione apostolica romana. I nostri fondatori, in Giappone, li paragono a san Francesco e san Benedetto che si mettono insieme, un caso unico nella storia degli ordini religiosi. Sono cattolico a tutti gli effetti, tant’è che coltivo ottimi rapporti con la diocesi di Fidenza e il vescovo Ovidio Vezzoli. Sposo per intero il Vangelo del Cristo, che è la via, la verità e la vita. Come il Buddha».
Perché è abate a Fudenji anziché parroco a Brescello, il paese di don Camillo?
«Merito di Cesare Barioli. Fu mio insegnante di judo. Negli anni Sessanta aveva incontrato Taisen Deshimaru Roshi, pioniere dello zen europeo. Io avevo fondato una scuola di arti marziali. Sono stato quattro volte campione italiano di judo».
Ma ebbe la vocazione al sacerdozio.
«Il mio primo maestro zen fu don Lino Cassi, parroco di San Michele a Fidenza. Gli chiesi: Gesù aveva un metodo? Rispose: “Macché metodo! Mangiava, beveva e frequentava personaggi difficili”. Lo ricordo ogni mattina nelle preghiere».
Taiten che vuol dire?
«Grande cielo. Traduzione grossolana di un carattere formato da due mani che salvano dalle acque un essere umano».
Il nome se l’è scelto lei?
«No, me lo diede il maestro che mi ordinò. Mi fece tagliare i capelli e vestire un kolomo, il corrispettivo del saio».
Quale titolo le spetta? Santità?
«Roshi, cioè maestro anziano. O dendo kyoshi, insegnante. Reverendo non mi piace. Molti mi chiamano abate. Abbiamo due papi, capi di monasteri in Giappone. Al massimo sono un cardinale».
La sua autorità da dove promana?
«Dall’esperienza diretta, frutto di un percorso molto lungo per essere riconosciuto come religioso. L’ha certificata la nostra curia di Tokyo. Quando fui scelto quale successore, molti prelati giapponesi erano contrari. Ma in questi decenni li ho visti cambiare atteggiamento».
I suoi accettarono un figlio buddista?
«Il papà lo persi in un incidente. La mamma era perplessa, ma venne ad aiutarmi nella missione. L’ho sepolta qui con rito buddista. A 2 chilometri, nel 1360 arrivò Rolando de’ Medici. Era uno stilita povero, senza colonna. Visse per 26 anni su una sola gamba. Pio IX lo beatificò. È il nostro genius loci, ci protegge».
Giovannino Guareschi sarebbe mai potuto diventare buddista?
«Lo era senza volerlo».
Si sente di assomigliare in qualche modo al prete uscito dalla sua penna?
«Più al sindaco Peppone, che durante lo sciopero dei contadini veglia con lo schioppo, si ritrova davanti don Camillo entrato nelle stalle da un pertugio e insieme mungono le vacche. Immagine perfetta, inscindibile, di un religioso».
Conobbe l’«altro» Guareschi?
«Purtroppo no, avevo 18 anni quando morì. Francesca, una signora romana vissuta a Fudenji, mi fece dono di Mondo piccolo. Non l’ho mai più chiuso. Vado in giro a spiegare lo zen con le parole di Giovannino. E di Giacomo Leopardi».
Che razza di toponimo è Fudenji?
«Lo scelse il maestro Narita Shuyu Roshi quando lo ospitai a Fidenza. S’ispirò al nome della mia città natale. In cinese significa tempio apostolico universale, cioè cattolico. Curioso, non le pare?».
Che cosa rappresenta quel monumento in marmo, a forma di sfera, nel parco?
«Ricorda Narita. Fu lui stesso a chiedermi che venisse eretto alla sua morte. Il globo ha il diametro dell’avambraccio del Buddha storico: 48 centimetri».
Prima verità del buddismo: tutto è dolore. Nella sua vita quando si manifestò?
«A 7 anni. Il papà, un fabbro da cui appresi l’arte di lavorare ferro e legno, mi regalò un leggio fatto con le sue mani. Toccandolo, capii che un giorno quel metallo sarebbe scomparso, così come i miei genitori. In un baleno percepii tutta la fugacità della vita e provai tristezza».
In quanti vivete nel monastero?
«Siamo una decina di monaci, di entrambi i sessi. Ospitiamo vescovi e teologi, giovani in campeggio, convegni. Da 20 anni collaboriamo con il Politecnico di Milano per stage rivolti ai manager».
Che storie hanno alle spalle i monaci?
«Variegate. Paola Antonicelli, milanese, laureata alla Cattolica, ha diretto per 6 anni Pratesi, biancheria di lusso in via Monte Napoleone, e per altri 14 Luceplan in corso Monforte. Volevano trasferirla a Hong Kong. Ora vive e insegna qui».
Devono raparsi a zero anche le donne?
«Preferibile, all’atto dell’ordinazione».
E di che cosa campate?
«Di doni e di offerte. Come presidente dell’Unione buddhista italiana, fui il fautore dell’intesa con lo Stato che poi portò all’erogazione dell’8 per mille».
I monaci sono liberi di andarsene?
«Più o meno, sì. Non è bello, ma capita. Anche se la nostra è una vita appassionata, che prende il posto della devozione. Il tesoro di Fudenji è la provincialità. Se ognuno avesse a cuore le proprie origini, diventerebbe un tesoro per gli altri».
Quanti sono i vostri centri in Italia?
«L’Unione buddhista ne conta 68, con una decina di orientamenti diversi».
Fate proselitismo?
«In un certo senso. Niente di maniacale. Divulghiamo le nostre attività. Da giovane non amavo Comunione e liberazione. Scrissi a don Luigi Giussani poco prima che morisse. Mandò qui due preti. Poi fui invitato al Meeting di Rimini».
Esiste per voi il concetto di peccato?
«Il peccato è una pecca. Nel mio dialetto, el pechi è il gradino. La consapevolezza di una mancanza aiuta nell’ascesa».
E per espiare una colpa come fa?
«Condivido con gli altri la mia debolezza. Con tutti gli altri. Provo una strana attrazione per ogni forma di vita. M’inteneriscono gli animali, anche selvatici».
Parla con il lupo, come san Francesco?
«No, penso alle cimici asiatiche, quelle puzzolenti. Avevo vietato l’ingresso nel monastero di cani e gatti. Ma una micia randagia mi saltava addosso al ritorno da ogni viaggio e mi camminava da una spalla all’altra. Mi ha fatto ricredere. Oggi Minette è sepolta nel nostro cimitero».
Non ho capito una cosa: crede in Dio?
«Dio non ha bisogno di me. Non è una scusa, non lo è mai stato. Sono battezzato e sono fiero di essere chiamato cattolico. Vado in chiesa. Faccio la veglia pasquale fino all’alba con i parroci. Sono appena stato, con due miei monaci, alla messa di mezzogiorno in onore di san Donnino, patrono di Fidenza».
E si accosta anche ai sacramenti?
«Le dirò la verità: sì. Da battezzato e cresimato, prendo l’eucaristia. Ha qualcosa di irresistibile. Invito tutti a farlo».
Ha mai incontrato il Papa?
«Giovanni Paolo II, varie volte. M’impressionava per il suo carattere, continua tuttora a ispirarmi. Ero colpito anche da Benedetto XVI, benché avesse definito il buddismo una forma di onanismo spirituale. Già nel 1969, da cardinale, predisse che la Chiesa, per come l’abbiamo conosciuta, sarebbe scomparsa, lasciando il posto a piccole comunità ferventi».
Camillo Langone ha scritto di lei: «Che i buddistomani d’Italia, i cultori dell’Occidentali’s Karma, gli ammiratori del Dalai Lama e di Fausto Taiten Guareschi leggano “Qohélet. Versioni e commenti dell’Ecclesiaste” di Guido Ceronetti».
«Ci ha invitato a smantellare il kitsch e il trash degli esotismi religiosi, senza renderci ridicoli con gli Om e i gong, senza apostatare. Langone è un cattolico un po’ rigido, ma sensibile. Parlerei volentieri con lui della vanità delle vanità, ma non mi pare interessato al confronto. Oggi è assai diffuso un pensiero compulsivo e molesto: si fatica ad ascoltare gli altri. Comunque qui non recitiamo Om».
Perché non si sente mai di un buddista che diventi ministro o faccia politica?
«Ce l’ha davanti. Alle europee del 2004 accettai che il mio amico Vittorio Sgarbi mi candidasse nel Nordest con il Partito della Bellezza. Rimediai 145 preferenze».
Salsomaggiore era famosa per Miss Italia. Avrebbe potuto essere buddista?
«Perché no? Mi ha dato un’idea. Il termalismo farebbe rivivere questa località, caduta un po’ in disgrazia. Penso a un gemellaggio con il Giappone».
Qual è la peggiore sventura che possa capitare a un uomo?
«Perdere di vista l’alterità. Ormai la scorgono solo i bimbi sotto i 3 anni. Loro intuiscono con l’olfatto. È meraviglioso».
Come vede l’Italia dal suo monastero?
«Degenerata».
E il mondo?
«Uguale. Io non ci credo, al mondo. Mi piacciono di più le fiabe di Guareschi».
Che cosa la aspetta dopo la morte?
«La morte è nella vita. Quindi c’è della vita nella morte».