Corriere della Sera, 28 novembre 2024
Biografia di Edoardo Albinati raccontata da lui stesso
Edoardo Albinati, col senno di poi, c’è un filo conduttore nei libri che ha scritto?
«A tenere insieme i miei zigzag forse un filo c’è: la vita a rischio. La vita ridotta ai minimi termini o vissuta sopravvivendo a difficoltà, ostacoli. La vita che si sta spegnendo e, invece, inaspettatamente risorge».
Le ragazze seviziate della «Scuola cattolica», l’amore a rischio di finire in «Un adulterio», i profughi afghani del «Ritorno» e il lavatore di vetri polacco, i tredici modi per perdere i sensi di «Svenimenti», il padre morente in «Vita e morte di un ingegnere», i detenuti di «Maggio selvaggio»... Perché quest’attrazione per «la vita a rischio»?
«Perché, essendo un figlio di papà vissuto più o meno nella bambagia, se queste occasioni non vado a cercarle di persona, non è che mi capitano. E poi c’è una questione generazionale: non ho fatto la guerra, e nemmeno il partigiano».
Una volta, ha detto «mi reputo molto fortunato a non essere, quando scrivo, paladino di niente». Ma aver raccontato immigrati o detenuti non fa di lei uno scrittore paladino degli ultimi?
«Fa di me uno scrittore con curiosità verso i temi della violenza, dell’avventura e di vite che meritano di essere raccontate in quanto diverse dalla mia. Non essere paladini di qualcosa significa abbandonare, scrivendo, i preconcetti che ho come uomo e come cittadino. La letteratura dovrebbe andare verso zone oscure che la tua vita non prevede e nemmeno immagina. Io poi, in queste zone, talvolta, ci sono andato anche fisicamente, ma non importa: importa che, se ne scrivo, il mio sguardo sia impietoso e aperto».
Quali «zone oscure» ha visitato fisicamente?
«Ho insegnato in carcere per 29 anni e sono stato volontario in Afghanistan con l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. La spinta era simile. Era: andiamo a vedere cosa c’è là fuori. O là dentro».
Cos’ha imparato insegnando italiano ai detenuti?
«Direi un po’ di calma. Restare calmi in una situazione potenzialmente esplosiva come il carcere, misurare l’altro senza affrettarsi coi giudizi. La lezione generale è che ciascuno di noi possiede risorse a cui attinge solo se messo alle strette».
Il momento in cui le sue risorse inesplorate le sono servite di più?
«Forse in Afghanistan. Pensavo: magari lì collasso, fallisco. Invece, questo letterato fracico, incredibilmente, riusciva a cavarsela anche in situazioni estreme. Un giorno, porto una collega a visitare un campo di accoglienza, e lì troviamo una rivolta. Eravamo solo in due, ma siamo riusciti ad ammansire tantissima gente inferocita, che aveva anche ragione: avevano fatto centinaia di chilometri rimpatriando dal Pakistan, ammassati nei camion, per ricevere venti dollari, e quel giorno invece i soldi erano finiti...».
Quando scrive, invece, com’è l’immersione nelle zone oscure?
«Costosa. Ha dei costi, psichici, che io per primo temo vani, inutili. Quando mi spacco la testa per ore per trovare la frase giusta, e poi penso che, intorno, ci sono ben altri problemi, persone che hanno bisogno di me, la guerra alle porte di casa, allora mi chiedo: ma alla fine, oggi, che ho combinato?».
Quale libro la conquistò alla lettura?
«L’Enciclopedia per ragazzi Il mio amico, edita da Garzanti: sei volumi illustrati di cui ricordo soprattutto il primo su miti, leggende e fiabe, con la mitologia greca e romana ma anche nordica, con le storie di Thor, Loki, Odino, e indiana con il Ramayana e il Mahabharata».
Che ragazzino era quello affascinato dalla mitologia?
«Solitario, timido, immerso in pomeriggi sterminati di lettura. Sono stato un lettore vorace fino ai 15 o 16 anni».
Dopo, che lettore è diventato?
«Più interessato a leggere per capire come si scrive. E sensibile alla bellezza».
La vocazione da scrittore quando arriva?
«Mai. Ho capito abbastanza presto, questo sì, che la lingua e le parole erano il mio mondo. Ho fatto anni di onesta manovalanza intellettuale, adattando dialoghi per telefilm, scrivendo articoli, leggendo manoscritti per le case editrici, ma non m’illudevo di poter essere io, un autore. Non sono di quelli che scrivono il loro primo romanzo a 12 anni, solo qualche racconto quando ne avevo quasi trenta. Chi li ha letti mi ha incoraggiato e Longanesi li ha pubblicati. Nel frattempo, le altre possibili strade si andavano chiudendo una dopo l’altra e mi rimaneva solo quella delle Lettere».
Se le chiedo qual è il libro del secolo?
«Non mi viene in mente. Però consulto spesso il Manuale medico Merck».
Sarà mica ipocondriaco?
«Per niente. Mi affascina piuttosto la precisione del linguaggio: usiamo spesso parole a sproposito, pensi a paranoico, o narcisista».
Lei ha dei rituali di scrittura?
«Da parecchi anni scrivo a mano, su quaderni zeppi un po’ di tutto. Mi piacciono la mia calligrafia, la pagina lavorata con le cancellature, le freccette, i ghirigori. E non scrivo mai in sequenza, piuttosto gli episodi che ho bisogno di buttare giù subito, prima che svaniscano. Poi, li monto usando un cartellone di tre metri per due con tante tasche trasparenti, in cui inserisco cartoncini colorati che corrispondono a ogni scena. Dopodiché trascrivo tutto al computer. Onestamente, non suggerirei a nessuno il mio metodo. È un delirio».
Le capita di buttare scene che non sa dove mettere?
«Hai voglia... Mi è capitato pure di scrivere una scena, dimenticarmela, e poi scriverla di nuovo».
Il nuovo libro in uscita nel 2025 è il compimento della trilogia di Amore e Ragione, il seguito di «Cuori fanatici» e «Desideri deviati»?
«Posso anticipare solo che è un giro d’Italia, un tentativo di descrivere luoghi e tipi del nostro Paese: familiari, amorosi, di lavoro, politici... Ogni genere di legame».
Suona enciclopedico, quante pagine sono?
«Non le 1.300 della Scuola cattolica».
Per scrivere 1.300 pagine, serve più coraggio o più incoscienza?
«Incoscienza. Solo quando le ho montate mi sono accorto che erano così tante. Mi sono sentito come un accumulatore seriale, quelli che quando muoiono gli trovano in casa 50 apriscatole. Il coraggio direi l’ha avuto Rizzoli, appoggiando la mia ambizione».
Qual era l’ambizione?
«Era: mo’ ve stendo a tutti».
Tradotto?
«Avere un posto nella letteratura italiana. Non volevo il successo o vincere lo Strega, era più l’idea di scrivere un’opera fondativa in cui mettevo tutto quello che sapevo fare».
Dentro, ci sono la violenza, la famiglia, l’adolescenza, la borghesia, il sesso, la definizione dell’identità... Cosa crede che resterà come racconto del nostro Paese?
«Se resterà qualcosa, desidererei che fosse la scrittura, più che i temi in sé, quelli si possono trovare anche altrove: la mia peculiarità sta nell’aver provato a tenerli insieme. Ecco, se c’è una sola arte che credo di padroneggiare è quella della connessione, fra gli argomenti come fra una frase e l’altra. È un’arte magica».
Un libro che avrebbe voluto scrivere lei?
«Sono rimasto senza parole rileggendo dopo tanto tempo Madame Bovary. Mi sembrava di avere 15 anni e di essere un ragazzo di bottega di Michelangelo che si chiede come sia possibile tanta maestria. Di costruzione della frase, della pagina, del capitolo...».
La corsa della destra all’egemonia culturale la preoccupa?
«Per me, la cultura ufficiale se la può prendere chiunque. Certo questo modo di arraffare i posti di potere fa parecchio ridere».
Non ha l’ambizione di essere uno «scrittore civile»?
«Direi che uno scrittore mette il suo impegno civile scrivendo al suo meglio, non prestandosi a dare un po’ di colore retorico a una causa».
Quando sarà pubblicato l’ultimo libro nella storia dell’umanità?
«Se per pubblicato s’intende stampato, credo presto. Se s’intende scritto, il libro non finirà finché c’è anche un solo uomo. C’è un arazzo dell’Apocalisse, ad Angers, in Francia, in cui San Giovanni inghiotte il suo libro: lo interpreto come il gesto di nasconderlo perché non è tempo che sia conosciuto; però, il libro resta in lui. Ci sarà sempre un libro nascosto nell’uomo, finché c’è l’uomo».