Corriere della Sera, 28 novembre 2024
Il papà di Ramy contro la violenza
Il telefono in casa Elgaml squilla alle 16. Da via Mompiani, al centro del quartiere Corvetto, risponde Yehia, il papà di Ramy, il 19enne morto domenica notte in un incidente stradale dopo un inseguimento dei carabinieri lungo otto chilometri per le vie di Milano. Dall’altro capo del telefono c’è il sindaco Beppe Sala. Forse è la chiamata più attesa, che riavvicina le istituzioni alle vie «incendiate» per tre giorni tra roghi di rifiuti, bus assaltati e interventi della polizia. «È stata una grandissima emozione, inattesa – confida Yehia —. Il sindaco ci ha prima fatto le condoglianze, poi ha apprezzato che avessimo espresso fiducia verso la magistratura e infine ci ha invitati a Palazzo Marino».
Il confronto dura pochi minuti. Ma è quanto serve ad abbassare la tensione che si era accumulata in questi giorni di proteste in strada, quando gruppi di giovanissimi si erano riversati tra via dei Panigarola, via dei Cinquecento e viale Omero per chiedere «giustizia» tra fuochi d’artificio sparati a raffica. Tre notti di rabbia, anche se quella tra martedì e ieri è stata la prima «tranquilla». La famiglia si è però isolata nel suo dolore. E prende le distanze da quanto accade in strada. «Quelli non sono amici di Ramy. È altra gente. Abbiamo detto basta a queste violenze. Neanche Ramy le avrebbe volute: era un ragazzo buono».
Come si spiega la reazione del quartiere?
«Quei ragazzi non hanno niente a che fare con noi. Non ci è piaciuto. Io, con la mia famiglia, rimango a casa. Ma un messaggio va lanciato, e voglio ribadirlo: basta violenza. Non deve esserci confusione. Non va bene. Questa situazione va contro la nostra unica volontà: quella di avere verità, di chiarire cosa sia davvero accaduto».
Martedì Fares, il 22enne alla guida dello scooter Tmax da cui è caduto Ramy, e il carabiniere alla guida della macchina che li inseguiva sono stati indagati per omicidio stradale.
«Rispettiamo la legge. L’Italia è un secondo Paese per noi, Ramy era più italiano che egiziano: non parlava neanche bene l’arabo. Abbiamo speranza e rispetto. Lo sviluppo delle indagini che c’è stato indica che le ricerche proseguono a 360 gradi e questo ci dà grande fiducia. Ci dà più sicurezza. Voglio solo verità per mio figlio. Crediamo nella magistratura: non vogliamo vendetta ma giustizia».
Yehia è sul divano di casa, dove s’è «chiuso» insieme alla moglie e all’altro figlio di 24 anni (altri due figli, un maschio e una femmina, sono rimasti in Egitto). Nel cortile del caseggiato popolare in cui vivono nei giorni scorsi s’erano radunati parenti, amici, conoscenti. Ieri non c’era nessuno. Parlare è difficile.
La chiamata del sindaco Sala è un «gesto-ponte» delle istituzioni.
«È stato emozionante. Serviva. Ma in generale, ringraziamo tutti per la loro vicinanza: mio figlio ormai era più italiano che egiziano».
In questi giorni si è parlato di un quartiere in rivolta. È d’accordo?
«Il quartiere è tranquillo. Sono situazioni che si verificano anche in altre parti della città».
State pensando a una manifestazione pacifica?
«Quando arriverà la verità. A quel punto vorremmo organizzare un cammino per la pace tra i ragazzi di tutti i quartieri. Vogliamo far vedere agli italiani il lato positivo dopo i disordini».
E ora?
«Pensiamo a venerdì, giorno dell’autopsia. Poi speriamo che tutto questo finisca. Ramy s’è portato via anche il nostro cuore. Era sempre gentile e sorridente. Mia moglie continua a piangere. E io ricordo quando guardavamo le partite di calcio insieme».