Corriere della Sera, 28 novembre 2024
Il dibattito pubblico è una rissa permanente
Chissà quanti dei giovani italiani che nei giorni scorsi hanno manifestato da Bologna a Torino alzando la bandiera palestinese e insieme imprecando contro il proprio governo conoscono l’origine, e quindi il significato, dell’impronta delle mani insanguinate con cui hanno imbrattato l’effigie dei ministri del suddetto governo. Se essi sanno, cioè, che le mani insanguinate evocano quelle di un giovane palestinese che alcuni anni fa si affacciò dalla finestra di un edificio all’interno del quale erano stati appena linciati due soldati israeliani catturati nei territori occupati. Il giovane aveva per l’appunto partecipato al linciaggio e tutto contento ne mostrava alla folla festante l’esito spaventoso rimastogli sulle mani. In politica i simboli contano. Se in Italia si va in piazza sotto una simile insegna sanguinaria, se si dà fuoco a fantocci raffiguranti questo o quel ministro, se poi si cerca di dare l’assalto a una prefettura attaccando i poliziotti con bombe chimiche che ne mandano all’ospedale un paio di decine, se queste cose accadono ma non suscitano alcuna decisa condanna da parte dei partiti dell’opposizione, questo è forse qualcosa di più di un episodio. E se poi ad esempio capita di ascoltare un ministro della Repubblica dare disinvoltamente del «criminale» a destra e a manca, compiacersi per la morte di uno sciagurato, o affibbiare uno stigma offensivo come «zecche rosse» ai suoi concittadini, allora è evidente che nella nostra democrazia c’è qualcosa che non va.
Q uesta sorta di male oscuro è il modo in cui in Italia s’intende la politica e il relativo dibattito pubblico. All’insegna dell’insofferenza infastidita per qualunque cosa dica l’avversario, del sospetto di malafede abitualmente insinuato sul suo conto, della negazione sistematica di qualunque sua affermazione (chi non la pensa come noi è per definizione un cretino o in malafede). Ne è uno specchio perfetto quel similparlamento che sono i talk televisivi. Dove la regola è la smaccata partigianeria del cosiddetto moderatore e della composizione del panel degli «ospiti», dove nessuno dei politici risponde mai a domande e obiezioni rivoltegli, dove lo sport preferito da ognuno è perlopiù parlar d’altro. Il tutto in un sovrapporsi di voci generalmente impegnate nell’interrompersi a vicenda.
Esiste un ovvio rapporto tra questo modo di «dire» e di «parlare» la politica da parte della grande maggioranza degli addetti ai lavori e il modo di «vivere» e di «agire» la medesima nelle piazze. È il modo che non mette mai al centro il «come» ma il «chi»; che non sa essere a favore di «qualcosa» ma sempre, unicamente, appassionatamente, contro «qualcuno».
È un modo antico. La democrazia italiana è nata così, infatti. Intollerante e faziosa, riluttante a parlare di cose concrete quanto amante degli slogan e degli improperi. E, come si sa, con la sinistra dedita all’uso perenne della qualifica di fascista per l’avversario.
Oggi, retrospettivamente, ci piace immaginare i partiti della Prima Repubblica impegnati a interloquire pensosamente sui destini del Paese. Ma è in gran parte un’illusione prodotta dalla distanza nel tempo. Sì, ai vertici, nei convegni e nei congressi (che allora esistevano), a livello di élite e talvolta anche nelle aule del Parlamento, era così. Ma nelle piazze, nella propaganda, a livello della socialità quotidiana così come nel frequente confronto elettorale la vita pubblica italiana restò inchiodata per decenni a un rapporto tra comunisti e anticomunisti caratterizzato dalla contrapposizione frontale e il più delle volte dal reciproco vilipendio. L’avversario effigiato sui muri o nei cortei nella maniera più ingiuriosa o le cariche della polizia e contro la polizia, non sono certo una novità di questi giorni. La seconda Repubblica non è nata certo sotto auspici migliori. Qualcuno ricorda il nome di Luca Leoni Orsenigo? Ebbene, era il deputato della Lega che alla Camera nel marzo del 1993 agitò il cappio rivolto ai banchi della maggioranza: non proprio la premessa di un civile dibattito, si direbbe. Soprattutto fu l’annuncio della fine della differenza stilistica tra alto e basso, tra la «gente» e l’élite che in qualche modo aveva resistito fino ad allora.
L’educazione politica del Paese è avvenuta in questo modo, con questi modelli. È avvenuta sotto la coltre spessissima della delegittimazione e di un crescente vuoto d’idee. Da anni la richiesta che qualsiasi partito italiano enuncia di primo acchito quando è all’opposizione non è di fare qualcosa (tanto meno dicendo come) bensì che siano destinati più soldi a questo o a quello. La violenza delle piazze e la rissa delle serate televisive servono a riempire un tale vuoto. Neanche questa sembianza parossistica della politica, però, è più capace di attirare l’attenzione di una buona metà degli italiani la quale, infatti, ormai diserta sistematicamente le urne.
Eppure quanto ci piacerebbe appassionarci ancora per qualche proposta vera e forte riguardante il nostro Paese, discutere un progetto di cambiamento importante, quanto ci piacerebbe grazie alla politica contribuire a decidere qualcosa del nostro futuro