il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2024
Una nuova edizione de Il prete bello di Parise
L’ultima casa di Goffredo Parise è una villetta a Ponte di Piave (Treviso). In giardino si trovano le ceneri, sotto alla copia di una scultura di Brancusi. Al piano terreno tutto è rimasto uguale: la bottiglia di whisky Rebell Yell, il pacchetto di Muratti (era un fumatore incallito), lo smoking nell’armadio, i quadri di Schifano, la tessera Alitalia. Al piano superiore, l’archivio. Qui ci sono tra l’altro le recensioni del Prete bello. Quella di Pietro (Piero) Chiara sul Corriere del Ticino si intitola Letteratura indecente e mette in luce i limiti del libro (come Longanesi e altri), ma in più lamenta il «linguaggio triviale» e la tendenza ad adeguarsi ai gusti del pubblico «incolto e volgare». Pochi anni dopo sarà lo stesso Chiara ad adeguarsi, intingendo la penna nelle pieghe e nei peccati della provincia e facendo pure lui il botto con Il piatto piange.
Don Gastone Caoduro – cognome a cui mancano due zeta... – è un giovane e prestante sacerdote che ha addosso tutti «i buoni odori di questo mondo», tranne quello di prete, e fa perdere la testa alle donne. In particolare alle zitelle di un cortile di Vicenza, dove è ambientato il romanzo, uno dei primi best-seller del dopoguerra. Uscito nel 1954, settanta anni fa, al tempo del governo Scelba, già ministro dellinterno dal pugno duro, Il prete bello viene riproposto da Adelphi con immagine di copertina esplicita, versione ascellare della Origine du monde.
In tempo di censura imperante (Pasolini andrà alla sbarra per Ragazzi di vita nel ’55-56), il successo del libro si deve anche al coraggio calcolato dell’autore: Parise mette in scena una vicenda di erotismo popolare – tra la visita del duce e le mutande del prete da rammendare – in gran parte subliminale e trattenuto, seppure a fatica. Tocca l’intoccabile, cioè la Chiesa, ma si scherma accorciando la tonaca sacerdotale in camicia nera. Don Gastone, infatti, ha combattuto in Spagna e scritto un memoir: Fede e ardimento. Le zitelle, antenate sfigate della Maggie di Uccelli di rovo, si illudono finché entrano in scena due donne senza niente da perdere: la «contessa Manina», moglie di un carabiniere, così chiamata per il vizio di «masturbare» i ragazzi tra i 16 e i 18 anni al cinema; e Fedora, conturbante ventenne, che si trasferisce nel caseggiato facendo perdere la testa a tutti e ricevendo i militari in soffitta. A quel punto le zeta fantasma di Caoduro assumono troppa consistenza perché le zitelle possano ignorarla, ma il lettore ne vedrà gli effetti soltanto sulla pancia di Fedora e la censura scelbiana, a quanto ne sappiamo, si trattiene. Non solo il prete perde la testa per la giovane e solare prostituta, ma anche un carceriere vedovo in pensione, il cavalier Esposito, che tiene tre figlie in età da marito segregate in casa e si vanta del cesso privato sul ballatoio.
Su questa trama da satira erotica del fascismo, Parise innesta se stesso bambino. L’io narrante è infatti Sergio, «figlio di N.N.», «padre non noto», tirato su dalla madre e da un nonno custode di biciclette, che ha il cancro e pochi soldi. Nella versione originale, custodita al Centro manoscritti di Pavia, l’elemento autobiografico era ancora più forte perché alla fine la madre di Sergio si sposa e lui smette di essere «il figlio del peccato». Lo nota Lucia Rodler, docente di Letteratura all’università di Trento, in un saggio ricchissimo di informazioni e illuminazioni, Goffredo Parise – I sentimenti elementari (Carocci). Nella realtà il piccolo Goffredo esce dalla condizione di miseria quando la madre sposa il giornalista Osvaldo Parise. Il finale del romanzo viene però cambiato.
Lo strano innesto di un io narrante picaresco su una commedia di erotismo provinciale, ipocrita e fascista produce uno strano effetto di sovrabbondanza e incoerenza che appesantisce la narrazione: come se Oliver Twist fosse piombato nel Veneto clerico-fascista e cercasse di raggranellare qualche soldo sfruttando la fame di pettegolezzi delle zitelle da cortile in fregola per un giovane prete. Il talento di Parise riesce a far stare in piedi tutto, ma quando incontriamo pagine felici e splendenti, come quella sul Natale, sentiamo la nostalgia di altri testi più riusciti. Da buon «figlio del peccato», senza Chiesa né partito, Parise ci risparmia però la predica e le macchiette ideologiche: anche se il cesso di Esposito crolla e il nonno di Sergio è socialista, don Gastone è molto meglio delle zitelle che lo concupiscono e la bella prostituta Fedora canta: «Allungheremo lo Stivale fino all’africa orientale».