La Stampa, 27 novembre 2024
Intervista a Michele Placido
Dire sempre quello che gli passa per la testa. Non un intento programmatico e nemmeno una voglia studiata di fare notizia. Eppure, nel tempo, Michele Placido si è specializzato nell’arte di essere spontaneo e adesso, a 78 anni, ha raggiunto impareggiabili livelli di maestria: «In Francia gli attori sono rispettati per tutta la vita. Da noi no, quando non funzioni più, un calcio in c…e buonanotte». Al Tff, ieri sera, hanno presentato Romanzo Popolare di Mario Monicelli, girato 50 anni fa. L’incasso del film sarà devoluto alla Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro presieduta da Allegra Agnelli, per sostenere l’Istituto di Candiolo – Irccs: «Ricordo una mattinata in giro con Monicelli, a Milano – rievoca Placido –, nel quartiere Lambrate, dove c’erano un sacco di emigrati, tanti li conoscevo benissimo, con i loro drammi, le difficoltà di arrivare dal Sud e vivere lì. Anche grazie a loro il Nord è progredito, avevano preferito lo stipendio al lavoro nei campi. Un problema di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze».
Cosa le viene in mente se pensa a quelle riprese?
«Ho memorie meravigliose. Monicelli innanzitutto, che mi portò con quel film, nel cinema importante, nell’epoca di massimo splendore. E poi Ornella Muti, fantastica, Tognazzi strepitoso, dominatore della commedia e degli incassi, e, ancora, l’apporto di Beppe Viola, che conosceva tutti i meridionali tifosi di squadre del Nord, e anche Jannacci».
Cosa le ha lasciato quell’esperienza?
«Era un cinema che raccontava i cambiamenti sociali, Romanzo popolare aveva spunti comici, ma metteva a fuoco i nodi del momento, dopo ho lavorato con Damiani, Bellocchio, i Taviani, Rosi, credo di essere una persona sensibile, così vedere quei maestri all’opera mi ha educato a fare film immersi nella società civile. Rosi diceva sempre che bisognava portare il cinema nelle scuole, perché i film insegnano più dei libri, soprattutto quando, come accadeva allora, sono diretti da persone di livello culturale altissimo».
All’epoca era solo attore, poi è diventato regista. Il suo lavoro ha una valenza politica?
«Si, quando sono passato dietro la macchina da presa, ho sempre raccomandato a me stesso di dire quello che penso, la verità, di raccontare non in modo ideologico, ma nel segno dell’arte che, quando è autentica, non è né di destra nè di sinistra. Pur essendo ideologicamente schierato, Francesco Rosi, nei suoi film, denunciava non da uomo politico, ma da grande regista».
A proposito di maestri, è stato fatto il suo nome per la guida del Centro Sperimentale. Ci ha pensato?
«Il mio parere è che bisognerebbe promuovere una riforma totale. Ci vorrebbero due presidenti, un manager, impegnato anche a dialogare con altri Paesi e un direttore artistico. Se parlassimo di un film direi che il presidente è il produttore e il direttore artistico il regista. Allora sì che si potrebbe costruire qualcosa di importante. Chiederei al Ministro Giuli di tenere conto di questo modesto consiglio, da parte di uno che ha fatto tanto cinema in tutti questi anni».
Il suo ultimo film Eterno visionario è dedicato a Pirandello, nell’ultima fase della vita. Per questo è anche una riflessione, molto personale, sulla vecchiaia. Ci pensa spesso?
«La risposta è in una frase che Pirandello pronuncia, nel film, guardandosi allo specchio, insieme al personaggio di Marta Abba, allora giovanissima. Dice “vedi, ho le rughe, sono vecchio, ma il mio cuore è ancora caldo”. È così anche per me, ho il cuore caldo perché sono ancora appassionato di cinema e di teatro. Sono fortunato, ho avuto già tutto, penso che non bisogna nemmeno chiedere troppo, ma a me, grazie a Dio, continuano a offrire occasioni di lavoro».
Ha avuto tanti premi, in Ernesto era un lavoratore gay e vinse l’Orso d’argento alla Berlinale. Come andò?
«La giuria era guidata da Werner Fassbinder, in un’edizione in cui, tra gli altri in gara, c’erano attori come Jack Lemmon e Nino Manfredi. Era una storia vera, raccontata da Umberto Saba. All’epoca, grazie a Dio, non avevo un ufficio stampa, andai una mattina dal giornalaio e lui mi disse “ma come, stai qui? Hai vinto l’Orso a Berlino!”. Lo scoprii aprendo i giornali. Pochi mesi dopo Fassbinder mi richiamò per fare un film con lui, ma io ero occupato con Rosi e non potei accettare. Più tardi mi offrì un altro film intitolato Cocaina, da girare proprio con Ornella, ma poi venne a mancare».
Di che cosa è più soddisfatto?
«Dei miei cinque figli. Sono la cosa più importante. I giovani oggi hanno bisogno di una guida. La tecnologia li fa un po’ perdere, si trovano spesso in un vicolo cieco, come se non percepissero appieno le possibilità che potrebbero sfruttare. E poi il mondo è peggiorato rispetto a quello in cui abbiamo vissuto noi da giovani».
Da che punto di vista?
«Mi riferisco alle guerre. I miei figli mi chiedono se davvero potrebbe scoppiare un conflitto atomico. L’altro giorno, Gabriele, il mio figlio più piccolo, mi ha chiesto “papà, ma è vero che devo andare a fare la guerra?”. Gli ho risposto di no, di stare tranquillo, perché, in caso, sarei io a mettermi in prima linea».