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 2024  novembre 27 Mercoledì calendario

Un giorno al corso per diventare capotreno

«Il fischietto, la bandiera e la chiave tripla: ecco il capotreno». Nazario Di Fluri ha 23 anni ed è cresciuto con il sogno di lavorare nelle ferrovie. Il suo entusiasmo per il ruolo per il quale si sta preparando si riversa nell’iconografia classica. Ma attorno a lui ci sono altri 18 compagni di corso, e sette sono ragazze, tutt’altro che indifferenti al fascino della divisa ma soprattutto di quello che ritengono l’ingrediente principale del loro futuro quotidiano, il più stimolante e al tempo stesso il più inquietante: «l’umanità».
Scalo Fiorenza, terra di confine tra Milano e Rho, retrovia strategica di Trenord. Un ampio perimetro solcato da binari, che ospita gli impianti di manutenzione, il Centro operativo di esercizio (che monitora la circolazione), uffici e anche le aule per la formazione, dove si preparano i futuri capitreno. Non è una campagna di reclutamento, spiegano dal quartiere generale di piazzale Cadorna, le porte sono costantemente aperte ai nuovi ingressi, e anche la formazione procede praticamente a ciclo continuo. E infatti le candidature sono ancora aperte. Al corso partito il 7 ottobre scorso partecipano, appunto, 19 aspiranti, tra i 22 e i 42 anni, che tra pochi giorni sosterranno gli esami del primo modulo, a maggio dovrebbero raggiungere il traguardo finale e la prossima estate si misureranno con il vero esame di maturità a bordo dei convogli lombardi. È una giornata di ripasso generale: buio in aula, sullo schermo scorre un lungo filmato girato dalla cabina di un treno in movimento lungo la linea per Porto Ceresio, che il docente Vincenzo Di Blasi, veterano dei binari lombardi, interrompe per interrogare la classe sui segnali visibili in quel fotogramma. I ragazzi rispondono, parlano di «deviatoio» per indicare uno «scambio», di «materiale» per indicare una carrozza o un treno, traducono il significato di una segnaletica misteriosa allo sguardo profano e riproducono alla lavagna disegni che sembrano geroglifici di un linguaggio noto soltanto alla comunità dei ferrovieri.
Più avanti le lezioni verteranno sulle mansioni del capotreno. Ma quel che è già chiaro è che c’è parecchio da imparare e da studiare, prima di arrivare a quella divisa e a quel fischietto. Ma cosa spinge questi giovani a questo percorso? Alcuni hanno addirittura lasciato un lavoro per mettersi in gioco quotidianamente tra i 780 mila passeggeri di Trenord. Perché? «Lavoravo nella ristorazione – spiega Daniele Caiazzo, 22, anni, di Caserta, laureando in Giurisprudenza – ho iniziato anche un percorso di crescita, ma credo che questo lavoro possa offrirmi qualcosa che cercavo: un ruolo di responsabilità che tiene insieme accoglienza e autorevolezza». Quasi tutti evocano la «voglia di mettersi in discussione» e la ricerca di un ruolo di «autonomia e responsabilità», come sottolinea suscitando l’approvazione della classe Francesco Festa, 29 anni laureato in Giurisprudenza – perché il capotreno non è un controllore, è molto di più: rappresenta l’azienda su quel treno». Per tutto questo, per esempio, a 36 anni Francesca Colombo ha scelto di lasciare il suo lavoro in pasticceria. Il suo coetaneo Giuseppe Battiromo enfatizza la «possibilità di crescere» e anche uno stipendio (circa 2.200 euro, comprese tutte le voci, per 14 mensilità) che a sua volta rappresenta «una buona prospettiva».
Soltanto dalle prossime settimane, in questa stessa aula, inizieranno ad affrontare il cuore della loro formazione, quella in cui si studieranno proprio le loro future giornate a bordo dei convogli Trenord, cioè a contatto con il pubblico. Ma già adesso, da ogni racconto delle motivazioni personali di questa scelta, affiora prepotente il «fattore umano», spauracchio e attrattiva degli aspiranti capitreno. «Per me questa è una scelta di vita – spiega Giulia D’Acunzo, 38 anni, laureata n psicologia —, per ragioni personali volevo una svolta e credo di poterla trovare in quella divisa, in quel ruolo che impone scelte da compiere da sola, sia pure nell’ambito di una grande organizzazione». Già, ma chi lavora sui treni corre anche rischi veri, che la statistica impone di non considerare più soltanto teorici. Soprattutto per una giovane donna: «Quegli episodi si verificano anche nelle nostre città – interviene la venticinquenne palermitana Roberta Scaletta – e noi continuano ad andare in giro e a vivere». E la psicologa aggiunge: «Penso che di fronte a certe situazioni, come ragazza scapperei subito, ma come capotreno cercherò di affrontarle e gestirle».